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Frasi idiomatiche

I modi di dire si riportano, a seconda del loro più abituale uso, nella forma all’infinito, oppure in un’espressione tipica (che però può anche essere variata e adattata alla circostanza). Dove è necessario e possibile, indichiamo sotto la frase idiomatica il suo significato. In alcuni casi, gli informatori non determinano il significato preciso dell’espressione, che quindi resta incerto.                

                                              

1. Abbità ai sprefónni.

Abitare in un posto assai lontano, isolato o difficile da raggiungere.

                                              

2. A chiesa è grossa, ma a devoziò è poca.

                                              

3. A chi tòcca n’ s’aróscia.

Variante: a chi tocca n’ se ‘ngrugna. A chi tocca, tocca; non ci si può rifiutare.

 

4. A cicciu de sèlleru.

Come il cacio sui maccheroni.

 

5. Ai quindici de Marino,

quanno c’è festa a Genzano.

Resta traccia di questa antica espressione anche in un’opera teatrale romanesca, Meo Patacca er greve e Marco Pepe la crapetta, azione storica in prosa e musica, con note di Filippo Tacconi, Roma 1865, dove Marco Pepe pronuncia la seguente replica: «Te saluto, s’arivedemo a li quinnici de Marino, quanno c’è la festa a Gensano». Sembra quindi un modo per dire alle calende greche.

                                              

6.  Ai tempi de checchennina.

                                               Quando Berta filava... Anche usato nell’espessione: nun sò più i tempi de checchennina.

 

7. Apre bocca e gne dà fiatu.

                                               Variante: opre bocca, ecc… Parla a vanvera.

 

8. Ariparte, Pippo!

Si dice a chi va spesso fuori di casa.

9. Arzà e pughe.

Darsi delle arie; alzare la cresta.

 

10. Arzasse cómme na ‘nférola.

                                               Alzarsi di scatto, inferociti.

 

11. Arzasse de primu spullu.

                                               Alzarsi prestissimo.

 

12. A ti nun t’ammazza manco u tronu de marzu.

Detto a persona abulica, indifferente.

                                              

13. A vita è ‘n mozzicu.

                                               La vita è breve.

 

14. Avoja a predicà, predicatore,

                                               si predichi pe mi predichi male.

                                               Variante: A tempu a predicà, predicatore. Si dice a chi non vuole ascoltare.

 

15. Avòja a ti!

Ne deve passare di tempo!

                                              

16. Balla a vècchia.

Si usa questa espressione per indicare un’illusione ottica, per esempio quella provocata dal sole sull’asfalto; si dice anche del riflesso del liquido in un bicchiere ricolmo.

 

17. Batte cómme u ‘ffiziu.

Picchiare di santa ragione.

 

18. Bàtte e brocchétte.

Battere i denti, aver freddo.

 

19. Bonasera Gesù, ché l’ojo è caro.

 

20. Bulle còmme na pila de sfardo.

Essere molto agitati, arrabbiati.

 

21. Bussà co i piedi.

                                               Presentarsi con un regalo, specialmente presso uffici pubblici...

 

22. Buttà o fritto.

Impegnarsi al massimo

 

23. Buttasse a u sbragu.

Non fare nulla, oziare.

 

24. Cacà fòra da u rinale.

Esagerare.

 

25. Cascà a piommu.

Cadere come il cacio sui maccheroni.                                                    

 

26. Ce métto puro i bòni sópre i cattivi.

Ci rimetto anche altri soldi.

 

27. Ce pò mette a pila ‘n cima.

Detto di una persona affidabile, su cui si può contare.

 

28. Cercà Maria pe Roma.

Cercare un ago nel pagliaio, perdere tempo.          

                                              

29. Ce se magna l’òvu de Pasqua.

Detto di qualcuno che impiega più tempo del necessario per effettuare qualche lavoro.

 

30. Ce vò a rólla (co quadunu).

Espressione che si usa relativamente a qualcuno che è molto sporco o mangia molto (rólla = stabbiolo), ma anche al gioco della briscola per dire che qualcuno è pieno di carichi.

 

31. Che abbiti au Colosseu?

Si dice a chi lascia la porta aperta.

 

32. Che ce pii?

Chi ci capisce è bravo!

 

33. «Che fa, lavóra?»

«A tirà i sassi a mi!»

In forma di minidialogo, si dice così riguardo a qualche ozioso, pelandrone.

 

34. Che n’ fenisce mai.

Senza pari.

 

35. Che si itu a fenì in culonia?

Detto a chi arriva con ritardo o non si vede da molto tempo.

 

36. Chesto e gnente

gn’è parente.

Cambia poco.

 

37. Che te si magnato, e sarache?

Si dice a una persona che beve tanto o spesso.

 

38. Che va’ pe lùppiche?

Si dice a chi esce tardi, di notte.

 

39. Che vié d’a refóta?

Si dice a chi è malmesso.

 

40. Chiappà p’u corvattinu.

Prendere per il bavero, per il collo (lett. per il cravattino).

 

41. Chiàppite u nasu e gìrite ‘ntorno.

Risposta scherzosa a un bambino che dice di annoiarsi e di non sapere cosa fare.

 

42. Chié quattro facce comme u sapó.

Detto di persona infida.

 

43. Chi s’hâ persi pe strada?

Si dice di somme considerate esagerate, che non si è disposti a pagare.

 

44. Chi u sente, Brega?

Non me ne curo per niente. Brega, forse per l’assonanza con “chi se ne frega”, era anche a Roma nome proverbiale di menefreghista, cfr. TP: ché ggiù in cantina chi voleva che ciannasse? Brega? (pag. 109)

 

45. Comme Dio ci ha destinato,

a mano ‘n terra e a culo arzato.

 

46. Comme me canti, te sòno.

Come mi tratti, ti tratto.

 

47. Comme te nn’è, bella fiò?

Come te ne va di sprecare il fiato. Spesso si dice rivolti a se stessi, in riferimento a qualcuno che non vuole intenderla.

 

48. Compà, si più sciapu de a bevanna.

Modo scherzoso per dire sciocco.

 

49. Comunque... sò mejo du’ pera che du’ prunghe.

 

50. Curre comme ‘n cavallu burzu.

Correre lentamente.

 

51. Da’a paura me trema tuttu l’orlu de u zinale.

Ironico: non  ho affatto paura.

 

52. Dà bùcia.

Mancare all’appuntamento.

 

53. Dà de picciu.

In senso proprio: agguantare; ma anche: infastidire, molestare, prendere di petto.

 

54. Dàgnele sempre pe e cégne.

Far passare tanti guai.

 

55. Dà ‘n bocca a quadunu.

Contraddire, rimproverare.

 

56. Digne de sì e dagne da bé.

Fallo contento e canzonato.                                                  

 

57. Ddormisse comme ‘n aratu sfasciatu

Variante: ‘ddormisse comme ‘n peru cottu. Addormentarsi di colpo.

 

58. Dormì più d’u Siccu.

 

59. Dormì scarzu.

Svegliarsi affamato.

 

60. E a e due-tre.

All’improvviso.

 

61. È bèlla

comme u culu de a padella.

Variante: de a scudella. Detto di chi si dà arie.

 

62. È comme papa Sisto:

 nun perdona manco a Cristo.

Il riferimento è all’episodio del crocifisso sanguinante che Papa Sisto V, subodorando l’inganno, avrebbe spaccato pronunciando le parole: «Come Cristo t’adoro, come legno ti spacco».  

 

63. E gambe me fanno fichéttu.

Variante: e gambe me fanno cecacè. Le gambe mi fanno giacomo giacomo.

 

64. È grasso che cola.

Si dice di qualche previsione: è il massimo che ci si può attendere.

 

65. È itu ‘n gròtta.

S’è offeso, ha messo il broncio.

 

66. È natru mònnu.

Si dice per sottolineare cambiamenti positivi, in meglio.

 

67. Escissene comme e scurégge.

Uscirsene a sproposito.

 

68. Esse bònu comme ‘n mózzicu de pa’.

Essere un pezzo di pane.

 

69. Esse cacatu e péntu.

Essere spiccicato.

 

70. Esse ciucu ciucu e nicu nicu.

Essere piccolissimo, microscopico.

 

71. Esse comme a castagna,

che fòra è bella e dentro tè a magagna.

 

72. Esse comme a sora Maria,

che tutti a vònno e niciunu s’a pia.

 

73. Esse comme a statua d’u Nabuccu,
 che quanno passa ‘rròta u muccu.

74. Esse comme l’ellera,

che ‘ndo s’attacca mòre.

 

75. Esse comme ‘n bucalossu,

che n’ tè panza, né culu, né ossu.

Si dice di persona molto magra.

 

76. Esse comme Trabbogna,
che quanno passa te ‘ngrigna u muccu e ‘rrota l’ógna.

77. Esse comme u pappagallu d’u nemese.

Non parlare mai.

 

78. Esse de cocciu.

Essere testardo, di testa dura.

 

79. Esse de nasu.
Essere una donna di facili costumi, «normalmente si dice toccandosi con l’indice della mano destra, almeno due volte la punta del naso e, per chi conosce bene il genzanese non serve nemmeno dirlo, basta dire chella e poi il gesto fa capire tutto» (T16).

80. Esse gravidu de mortatella.

Essere molto grasso.

 

81. Esse lestu cómme a pórvere.

Varianti: esse più lestu d’a pórvere; esse na pórvere. Si dice di una persona assai svelta (in tutti i sensi).

 

82. Esse longa comme a camicia de Meo

Essere molto lunga.

 

83. Esse l’urtimo dell’osso.

Essere molto cattivi

 

84. Esse mattu comme ‘n cavallu.

Essere fuori di testa.

 

85. Esse na coppia e ‘n paru.

Variante: fà na coppia e ‘n paru. Detto di due persone inseparabili o, anche in senso negativo, essere della stessa risma.

 

86. Esse na léngua zózza.

Variante: esse na léngua de panacca. Essere una persona pettegola.

 

87. Esse na parìa.

Essere uguali (detto di due oggetti, di due persone).

 

88. Esse natu co a camicia velata.

Variante genzanese del detto italiano. Essere fortunato.

 

89. Esse ‘n cavallu de curza.

Essere uno che va sempre di fretta.

 

90. Esse ‘n cenicu de gnente.

Soprattutto detto di bambini, essere piccolo, poco sviluppato

91. Esse ‘n ciòccu d’antanu.

Essere un sedentario, oppure un tipo placido, calmo.

 

92. Esse ‘n culu che n’ha visto mai camicia.

Essere un nuovo ricco.

 

93. Esse ‘n culu de mòla.

Detto di persona lenta a muoversi, soprattutto quando c’è da eseguire un ordine.

 

94. Esse ‘n impiastru de séme de lino.

Essere una birba.

 

95. Esse ‘n mazzu ‘mpiommatu.

Variante: esse ‘n culu de piommu. Persona che non dà ascolto a nessuno, indifferente, abulica.

 

 

96. Esse ‘n muccu de pippa.

Essere un furbacchione, un tipo scaltro.

 

97. Esse ‘n orlóggiu de legnu.

Essere una persona statica, che non si muove mai.

 

98. Esse ‘n pòru fiu de matre.

Essere un povero disgraziato, innocente.

 

99. Esse peggio de na lavannara.

Essere un chiacchierone, che non sa mantenere un segreto.

 

100. Esse peggio de Sant’Ippolitu.

Essere estremamente tirchi. Sant’Ippolito era il soprannome di un latifondista genzanese, che per risparmiare comprava il pane vecchio. Durante la vendemmia raccomandava agli operai di raccogliere anche e vaca, ossia i chicchi d’uva. A un bracciante ariccino che si giustificava, dicendo: «N’e pozzo reccoje, e vaca, ché tengo o deto greve», rispose arrabbiato: «Metti a mano pettèra e po’ c’e butti sopre!» (T18).

 

101. Esse pienu de làscime-stà.

Essere altezzoso, avere la puzza sotto al naso.

 

102. Esse più gnorante de na scarpata ao scuro.

Essere il massimo dell’ignoranza.                                                          

 

103. Esse più jottu de a gatta de Mèrope.

Essere ghiottissimo. «Merope era una tabaccaia che aveva sempre una gatta sul bancone» (T16).

 

104. Esse più matta d’a matta de Maggiorani.

 

105. Esse più riccu de Marsìcola.

Essere ricchissimo.

 

106. Esse più ruzzu de ‘n canchinu.

Essere assai ignoranti.

 

107. Esse u càncheru e a pesta.

Detto di due persone terribili.

 

108. Esse u primu a portà u mòrtu.

Essere il primo a fare qualcosa (in genere di poco lodevole).

 

109. Esse u scatarru der diavolo.

Detto di persona bruttissima.

 

110. Esse sinceru comme ‘n bronzu.

Essere assai sincero.

 

111. Esse zozzu comme ‘n léngheru.

Variante: esse ‘n monnelu. Essere sporchissimo.

 

112. E tòcca a viòla!

E chi s’è visto, s’è visto.

 

113. Fà a capannata.

Restare tutta la giornata di lavoro dentro la capanna a causa del maltempo.

 

114. Fà a cenichi/cenichétti.

Fare a pezzi.

 

115. Fà a fìchera a quaduno.

Dare le mele, sovrastare qualcuno.

 

116. Fà a genzanesata.

Lasciare parte del cibo, non finirlo del tutto.

 

117. Fà a pizzardó.

Giocare allo schiaffo del soldato.

 

118. Fà a stira.

Spogliare a forza (come scherzo o punizione).

 

119. Fà a trita.

Avvoltolare tutte le lenzuola a forza di rigirarsi sul letto (per insonnia, perché si sta male, ecc...)

 

120. Fà e cacce.

Fare la posta.

 

121. Fà ballà sopre a ‘n zeppe.

Far rigare dritto.

 

122. Fà camminà solu.

Ingannare senza darlo a vedere.

 

123. Fàcce i straggi.

Usare tantissimo.

 

124. Fà chiòdu.

Non lavorare (T1), non eseguire gli incarichi (I1).                                                

 

125. Fà combinèlla.

Variante: esse ‘n combinèlla. Essere in combutta.

 

126. Fà comme l’antichi,

che magnevino e cocce e buttevino i fichi.

Fare qualcosa al contrario.

 

127. Fà cómme l’òjo au lume.

Variante: comme fusse misso l’ojo au lume. Ravvivare, rinvigorire.

 

128. Fa comme Trabogna,

arza a cianga e sona a tromba.

Variante: Peppe Logna.

 

129. Fà comme u cellettu ‘n gabbia,

che n’ pò canta’ d’amore, canta de rabbia.

Fare buon viso a cattivo gioco. Cfr. lo stornello registrato da T17 (pag.253): . L’ucello in gabbia:/ si canta la matina co’ la nebbia/nun canta per amor, canta pe’ rrabbia.

 

130. Fa comme u somaru: quanno trotta e quanno n’ cammina.

Si dice di qualcuno che lavora in modo incostante.

 

131. Fà contentu e cojonatu.

Ingannare di nascosto.

 

132. Fà crésce coi lòlli.

Viziare.

 

133. Fà i guadagni de Maria Cazzétta.

Lavorare o compiere un’azione con scarso profitto, rimetterci.

 

134. Fà i parmétti.

Vivere negli stenti.

 

135. Fà i seporcheri.

Variante: sepporcheri. Lett.: fare i sepolcri, ossia visitare l’esposizione eucaristica durante la Pasqua. In senso figurato, si usa nel senso di perdere tempo, girando senza scopo.

 

136. Fà l’abbisso.

Variante: fà er diàvelo. Fare un gran baccano, fare il diavolo a quattro.

 

137. Fà mappa.

Detto di tubi ecc., restare incastrato; detto di impasto, diventare denso. 

 

138. Fà micéttu.

Fare solletico.

 

139. Fà mischiéttu.

Barare, fare le carte in modo da vincere.

 

140. Fà na bertà.

Fare un piacere, un favore, una buona azione.

 

141. Fà na làllera.

Variante: fà certe làllere. Scocciare, infastidire, rompere le scatole.

 

142. Fà na svertézza.

Fare qualcosa alla svelta. Anche con senso iron. antifr.: prendersela con tutta calma.

 

143. Fà ‘n buciu comme n’or de notte.

Variante: fà ‘n culu comme ‘n santu vecchiu. Ridurre a mal partito, fare un culo grosso così.

 

144. Fà ‘n gócciu d’acqua.

Orinare, cambià l’acqua a e liva.

 

145. Fà ‘n muccu comme ‘n santu vecchiu.
Riempire di schiaffi.

146. Fà ‘ntorcinà e budèlla.

Variante: fà ribbudicchià e mazze. Disgustare.

 

147. Fà o fume.

Correre via alla svelta, muoversi alla svelta.

 

148. Fà órmu.

Non lasciare nulla a qualcuno (detto soprattutto di cibo e bevande). L’espressione viene dal gioco della passatella.

 

149. Fà o stravéde.

Fare qualcosa di eccezionale, di sensazionale, di miracoloso.

 

150. Fà pane e ciccia.

Essere pane e cacio, culo e camicia.

 

151. Fà più dannu che a grànina d’ottobre.

Detto di una persona pasticciona, che combina un mucchio di guai.

 

152. Fà porverinu.

Fare piazza pulita.

 

153. Fà rimané cómme ‘n tórzu de bròccolu.

Far restare di sale, cogliere alla sprovvista.

 

154. Fà ‘rrabbià de fame.

Far torcere dalla fame.

 

155. Fà scópa.

Spazzare via, fare piazza pulita.

 

156. Fà scrià o piscio.

Mettere una paura estrema.

 

157. Fà sparupa.

Fare man bassa.

 

158. Fasse a patente.

Bagnarsi in seno, come un tempo capitava alle lavandaie meno esperte.

 

159. Fasse portà da a bocca.

Farsi criticare, farsi parlare dietro

 

 

 

160. Fà terra pe ceci.

Essere morto e sepolto.

 

161. Fà u grastatèllu.

Detto dei neonati: fare la bava.

 

162. Fà u giru d’e sette chiese.

Fare un lungo giro con molte tappe.

 

163. Fà u giru d’u gnoccu.

Fare senza necessità la strada più lunga.

 

164. Fà u sordu der compare,

che sente solo quanno gne pare.

 

165. Fà venì e ‘nfantiòle.

Mettere una gran paura.

 

166. Fà zompà a scópa.

Far perdere il lavoro.

 

167. Frégna, nònna!

Variante euf.: fresca, nonna! Esclamazione di sorpresa, sdegno, ecc… Accidenti!

 

168. Fumà più d’u Siccu.

Fumare come un turco.

 

169. Fuma zi Pè!

Escl.: To’! Prendi! Becca! (si dice per azzittire l’interlocutore, dopo una critica che si pensa inoppugnabile).


 

170. Giocà de rèstu

Giocare d’azzardo.

 

171. Girà più de ‘n sòrdu puzzu.

Stare sempre in giro. Si dice anche di ragazza di facili comuni.

 

172. Girà tutto ‘r monno.

Detto di ragazza, farsela con tutti, essere di facili costumi.

 

173. Gìrite e méttite bè.

Tra una cosa e l’altra; grosso modo.

 

174. Gn’hâ date sempre pe e cégne.

Gli ha fatto sempre passare tanti guai.

 

175. Gne cammina u puce.

Essere innamorato/a.

 

176. Gne fanno l’òva puro i gatti.

Gli va tutto bene.

 

177. Gne fètino galli e galline.

Gli va tutto per il verso giusto.

 

178. Gne pia o male.

Si fa prendere dall’ansia.

 

179. Gne puzza o brodo grasso.

Detto di persona che ha tutto e non lo apprezza.

 

180. Gne si menato co u bastò de bambacia:

issu terrìa da piagne senza botte.

 

181. Gne va l’acqua pe l’ortu.

Gli va tutto bene, a gonfie vele.

 

182. Gne vè fantasia puro d’o féghito de crapa.

È incontentabile.

 

183. Guardà a’a squarcétta.

Guardare (di traverso) con perplessità, scetticismo.

 

184. Guardà u capéllu e nun vedé u travu.

 

185. Ha mozzicato a zinna a’a matre.

Detto di persona sfortunatissima nella vita (come se fosse stato maledetto da neonato dalla madre).

 

186. Ha parlato Cacinu.

Ha parlato il sapientone. Dal nome dell’attore Gustavo Cacini (Roma, 1890 – Nettuno, 1969), che impersonava nei suoi spettacoli il tipo dello spaccone e del millantatore. Cfr. l’espressione: Me pari Cacinu.

 

187. Ha portato u sassu ar Domo.

È un vecchio bacucco.

 

188. Ho fatto stòmmicu.

Mi son fatto coraggio (per compiere qualcosa di sgradevole).

 

189. Ì a caccia a mosche.

Fare qualcosa di inutile.

 

190. Ì ai pazzi.

Impazzire.

 

191. Ì a lécco.

Andare via liscio come l’olio, susseguirsi in grandi quantità.

 

192. Ì a pullu.

Detto di galline e sim., ritirarsi nel pollaio; scherzoso, di persone, andare a dormire, a riposarsi.

 

193. Ìccattènne.

Restare senza un soldo.

 

194. Icce pe e piste.

Andarci di mezzo.

 

195. Ì de bisògno.

Fare un bisogno.

 

196. I fa pià all’atri, i dolori.

Detto di un menefreghista.

 

197. Ì liggéru.

Mangiare poco (contrariamente alle aspettative).

 

198. Ìn bòna.

Andare a buon fine.

 

199. Ìn puzza.

Indispettirsi, inacidirsi.

 

200. Io sò a voce,

e l’atri scòccino a noce.

Pare di interpretare: io ne ho la fama, ma in realtà gli altri fanno i fatti.

 

201. Ì pe raspu.

Variante: ì pe ruspu. Andare racimolando e, per est., rubare.

 

202. Ì pe riccapézzu.

Andare racimolando.

 

203. Ì pe tacche.

Andare (per i boschi) in cerca di legna minuta.

 

204. I piaceri i fa u farmacista.

Si risponde così per negare un favore.

 

205. Ì sbamberlè.

Variante: stà sbamberlè. Traballare, non reggersi in piedi.

 

206. Ì sgrancu.

Restare digiuno, mangiare o ricevere poco.

 

207. Issu dorme da piedi.

Iron.: lui non sa nulla.

 

208. Jutà p’a scénta.

Iron., aiutare al contrario, sfavorire. Varianti: spégne pe a scenta, ‘ncarrà pe a scenta.

 

209. Ma che davero davero.

Espressione di stizza, impazienza: ora è troppo.

 

210. Ma che si diséccu?

Detto a chi a molta sete o beve dalla bottiglia.

 

211. Ma che te dice ssa capoccia? Che si ricciu?

Si dice così quando si contesta un’affermazione, la si ritiene campata in aria, ecc…                                                             

 

212. Ma che te sò ditto cótica?

Accidenti quanto sei suscettibile!

 

213. Ma che te sta’ a giocà a chiave de casa?

Si dice a chi è molto accanito nel gioco.

 

214. «Ma chi te ‘mmazza?»

-dice Pennazza.

Ma alla fin fine che mi importa di te?

 

215. Magnà a schiattacòrpu.

Mangiare a crepapelle, fino a scoppiare.

 

216. Magnà a sette ganasse.

Mangiare a crepapelle.

 

217. Magnà co u muttatore.

Mangiare in abbondanza.

 

218. Magna e foje e po’ n’e vò.

Detto di chi è insoddisfatto (T1).

 

219. Magnà quanto ‘n cardellinu d’aratu.

Variante: quanto ‘n cardellinu straccu. Mangiare pochissimo.

 

220. Magnasse Cristo co tutta a croce.

Divorare tutto quanto, essere senza fondo.

 

221. Magnasse e ribbévese quadunu.

Dargli una sonora strigliata, trattarlo male.

 

222. Magnasse i sòrdi a garaghè.

Scialacquare il denaro.

 

223. Magnasse o grasso der còre.

Arrabbiarsi tremendamente, mangiarsi il fegato.

 

224. M’a magnerìa puro ‘n capo a ‘n tignósu.

Si dice di una cosa gustosa, di cui si va matti.                                                        

 

225. Manchino i preciutti, perché se trovino l’ancini.

Si dice così quando si è al verde, c’è carestia, ecc…

 

226. Manco si te fa’ artu comme o sole.

Mai, in nessun caso. Variante: manco si te fa’ verde.

 

227. Mannà (a) ‘ccattènne.

Far restare senza un soldo. Vedi anche: ì ‘ccattenne.

 

228. «Maritimu miu, ‘ndò me porti?»

«Nicchia pe nicchia».

«Comme a sbaviarella che se ‘ttacca.».

 

229. Ma va’ a piagne a Cìvita, ché te danno du’ sòrdi a lacrima.

Detto con stizza a chi piange o si lamenta.

 

230. Ma va’, va’.

Macché, no.

 

231. «‘Mbè?»

«‘Mbè o fa a pecora e u lope s’a magna».

Scherzosa replica, soprattutto rivolta ai più piccoli.

 

232. Me bulle ‘n ganna.

Mi fa venire l’acquolina in bocca.

 

233. M’è cascatu de quartu.
Si dice di qualcuno che non si stima più.

234. Me ne frego dell’aria cattiva.

Non me ne importa nulla.

 

235. Me pare a ciovetta sopr’u mazzolu.

Il senso originale di questo modo di dire pare perso; qualche informatore spiega: sembra l’uccello del malaugurio. Altri: voler tutta l’attenzione per sé, oppure voler tenere tutto sotto controllo. Il mazzolo o mazzuolo è l’asta di legno su cui si tengono le civette per attirare le allodole.

                                                                                             

236. Me pare a pila d’o farro.

Sta sempre a brontolare.

 

237. Me pare Mia-d’òro.

Detto di donna che si dà grandi arie. Forse l’espressione viene da un soprannome.

 

238. Me pare u mascheró d’a fontana.

Si dice di una persona eccessivamente truccata o brutta.

 

239. Me pare u stattezzittu de Bonèlli.

Detto di persona taciturna. Stattezittu doveva essere qualche statua che faceva segno di far silenzio.

 

240. Me pari Cacinu.

Detto a chi si dà arie, di uno sbruffone. Cfr. il modo di dire: Ha parlato Cacinu.

 

241. Me pari u fiu de niciunu.

Si dice a bambino sporco, vestito male, scapigliato.

 

242. M’èsce propio da ‘n fiancu.

Non me l’aspettavo, questa mi è nuova.

 

243. Métte a invernina.

Detto di tempo: quando piove e non c’è speranza che smetta.

 

244. Métte a porverétta all’occhi.

Ingannare, abbindolare qualcuno senza farsene accorgere.

 

245. Mettece u caricu da undici.

Versare benzina sul fuoco (metafora presa dal gioco della briscola).

 

246. Métte e carte ‘n piazza.

Strombazzare ai quattro venti, far sapere a tutti notizie che bisognerebbe tener nascoste.

 

247. Mette l’ossa dentro a ‘n canestru.
Fare a pezzi (anche in senso figurato), ridurre a mal partito.

248. Métte ‘n muttatore.

Mettere il muso, imbronciarsi.

 

249. Mettese a panzetta.

Stare in panciolle.

 

250. Méttese ‘n grand’istate.

Portare abiti leggeri anzitempo.

 

251. Mette u stucciu au pitalettu.
Indorare la pillola.

252. Mica casca o grano!

Non c’è nessuna fretta!

 

253. Mica stemo a’a famia dei Morettini.

Si dice quando qualcuno va in giro per casa seminudo.

 

254. Morì bilatu.

Morire di rabbia o crepacuore.

 

255. Mo se còcino sse fava!

Chissà quando finirà...

 

256. Mo sémo propio panato!

Ora siamo davvero fritti, perduti!

 

257. Muccu zó!

Espressione (lett.: faccia sporca) con la quale ci si rivolge ai bambini in tono affettuoso.

 

258. N’ ha spennazzato ‘n occhiu.

Non ha chiuso occhio.

 

259. N caffè da Palazzéttu basta e vanza.
Palazzettu era il bar Nazionale, uno dei bar centrali di Genzano. La frase è da intendere: non si tratta ci un gran favore, per sdebitarsi basta un caffè (T16).

260. N casu che sì.

Caso mai, eventualmente, se è proprio necessario.

 

261. N’ c’è na lira pe ‘ncantà ‘n ciecu.

Variante: n’c’è na lira pe fà cantà ‘n ciecu. Non avere un soldo. Cfr. anche il proverbio: senza ‘n sordu nun canta ‘n cecu.

 

262. N’ ce pierìa manco ‘n petè.

Variante: n’ gne darìa ‘n petè. Non ci voglio avere nulla a che fare.

 

263. N’ ce pii manco a cordicella c’o sapó.

Detto di somme esigue di denaro rimaste: ossia questi soldi non ti bastano neppure a comprarti la corda per impiccarti.

 

264. N’ ce pòzzo ‘ngannà l’anima.

Non ci posso giurare.

 

265. N’ ce se pò pià patta.

Non ci si può fare affidamento, non ci si può contare.

 

266. N’ ce se véde manco a biastimà.

È buio pesto.

 

267. N’ ce vojo ì a soccómbre.

Non ci voglio andare di mezzo.

 

268. N’ ci a fa manco a dì tre.

Non ce la fa neanche a parlare.

 

269. N’ crésce e n’ crèpa.

Detto soprattutto di piante stentate.

 

270. Ndo tocca tégne.

Lascia ovunque il segno.

 

271. Ndo va Barca, va Bacìccia.

 

272. Ndo va’? pe l’Ormi?

Variante: ‘ndo va’? P’e fratte? È inevitabile, non c’è scampo; si dice riguardo a situazioni senza via d’uscita.

 

273. Ndo va, rivè.

È la stessa cosa.

 

274. N’escì da u còcciu.

Variante: n’esse mai escitu da a coccia. Essere una persona ingenua, che ha poca esperienza.

 

275. N’èsse bonu manco a fasse ‘mmazzà.

Essere un buono a nulla. N’ sò bònu più manco a famme ‘mmazzà, sono ormai finito.

 

276. N’ fa ‘n sòrdu de dannu.

Fa proprio bene.

 

277. N’ fà peccatu.

Detto di cosa, non aver difetti, essere perfettamente integra.

 

278. N’ fasse sfuggì manco na penna.

Non farsi sfuggire nulla.

 

279. Nfreddolisse comme ‘n sèrpe.

Essere intirizziti.

 

280. N occhiu te caccia l’atru,

Detto a chi dorme molto (T1).

 

281. Nonnu miu è mortu a letto.

Ossia si è sempre fatto gli affari suoi, e anche chi parla non ha intenzione di immischiarsi.                                   

 

282. N’ poté scèrne.

Non sopportare, vedere come il fumo agli occhi.

 

283. N’ se pierìa mai pasqua.

Qui pasqua è nel senso di ostia. Il senso è: non si arriverebbe mai a una decisione.

 

284. N’ se stròzza.

Non si riesce a mandar giù, è immangiabile.

 

285. N’ te mette u cappellu, ché a messa n’è fenita.

Variante: N’ te fà u segnu d’a croce. Non cantare vittoria troppo presto.

286.  N’ te ne curà.

Non curartene, non augurartelo (si dice di solito di malattie, dolori; anche come intercalare).

 

287. N’ tené manco l’occhi pe piagne.

Essere poverissimi.

 

288. N’ tèngo che fà!

Iron.: non ho niente di meglio da fare!

 

289. N’ t’i pià ss’attacchi de pettu.

Non preoccuparti, lascia perdere.

 

290. N’ t’o saccio a dì.

Non lo so.

 

291. N’u riccojerissi manco p’a pianara.

Detto di cosa o persona repellente.

 

292. Nun ce sò misso e nun ce sò levato.

Gliel’ho detto chiaro e tondo.

 

293. Nun gne vorria èsse manco vicino de fornettu.
Detto di persone odiose, repellenti.

294. Nun me stuzzicà ssu dente puzzu.

Non tocchiamo questo punto dolente.

 

295. Nun me tè da fà niciun fiu prete.

Posso fare a meno di questa persona. Variante: nun m’ha fatto niciun fiu prete, non ho nessun obbligo nei suoi confronti.

 

296. Nun te meriti manco a sarsa puzza.

Variante: manco l’acqua d’a fontana. Detto a un ingrato.

 

297. Nun tengo da ì a comparì.

Non devo presentarmi in un luogo elegante.

 

298. Nun trova palu che gne se ficca.

È incontentabile.

 

299. O freddo te trugna...

te trugna comme na noce.

Si usa dire così quando fa molto freddo.

 

300. O sa ‘r popolo e ‘r Commune.

Lo sanno proprio tutti.

 

301. Pagà e pècime.

Pagare le conseguenze.

 

302. Pare a Morte ‘n vacanza

È magrissimo.

 

303. Pare na bocca de lòpe,

È molto buio

 

304. Pare ‘n smimmeréttu,

co na scarpa e ‘n stivalettu.

Detto di qualcuno malmesso, vestito male.

 

305. Pare ‘n statummènne.

Detto di persona rigida, impalata.

 

306. Pare ‘n sventulicchiu.

Detto di cose di poco conto o scarsa qualità, oppure di una persona con abiti svolazzanti, pieni di svolazzi.

 

307. Paréte u zoppu e u sciangatu.

Detto di due persone malmesse.

 

308. Pare u ròspu sótto u violó.

Si dice di una persona che non esce mai di casa, che non si fa mai vedere in giro.

 

309. Parlà co e recchie.

Mangiare senza sosta.

 

310. Parlà co u cece ‘n bocca.

Parlare in modo lezioso.

 

311. Passà pèlle pèlle.

Non fare né caldo né freddo, lasciare indifferente.

 

312. Passà sotto taralla.

In senso proprio, passare tra due file di persone ed essere oggetto di ripetuti colpi (tipo di punizione, per esempio, in passato in uso tra i militari); per estensione, non passarla liscia.

 

313. Pià a strada dell’òrtu.

Fare spesso una certa strada (si dice così soprattutto se la strada è lunga).

 

314. Pià comme ‘n giocarèllu.

Variante: fassene u giocarèllu. Detto di persona, prendere in giro; di cosa, trattarla male, quando bisognerebbe invece usarla con più cura.

 

315. Pià de fùrmini.

Detto di vino prendere d’aceto; detto di persona, alterarsi.

 

316. Piagne a fame dall’occhi.

Essere molto povero.

 

317. Piagne comme na vita mozza.

Struggersi di lacrime.

 

318. Piagne u mortu e frega u vivu.

Detto di persona ipocrita, che persegue solo i propri interessi.

 

319. Pià o marcaduto.

Variante: pià u ‘llampamazzu. Prendere paura.

 

320. Pià o matto.

Impazzire, dare di volta il cervello.

 

321. Pià puntu.

Variante: règge ‘n puntu.  Impuntarsi.

 

322. «Pigrizia, vuoi il brodo?»

«Se me lo porti...»

Qui la lingua italiana è usata in modo caricaturale. Si prendono in giro così i pigri.

 

323. Pistà comme l’ónto.

Picchiare molto, dare tante botte.

 

324. Più su sta Monna Luna.

Sembra che un tempo questo modo di dire (usato anche altrove nel significato: non me la conti giusta) venisse usato a Genzano per prendere in giro i nemesi (cfr. RL, pag. 34, nota 1). Questo perché, stando sempre a quanto riferisce RL, «una volta i Nemesi volevano rubare la luna e tenerla unicamente per loro soli; e perciò andarono a pescare nel plenilunio, con una canestrella nel lago. Pesca, e pesca, passa la notte, e quando fu giorno sparì la luna; sicché non presero nulla. Intanto i Genzanesi quando vogliono burlare i loro vicini dicono: “Ebbene, sor nemese, hai fatto buona pesca sta notte? Ti sei portata via la luna in paese tuo?”»

 

325. Ppiccà ‘n fronte.

Negare, non dare.

 

326. Ppiccà u cappellu.

Sposarsi per interesse.

 

327. Pulì l’òjo!

Si esclama così, quando si resta senza un soldo (in genere giocando) o si è fatta piazza pulita di qualche cibo.

 

328. Puzzà de palle ramate.

Varianti: puzzà de micciu; puzzà de schioppettate. Essere una persona terribile; di bambini, essere un birbante.

 

329. Quanno a fìcora fiorisce

e u mulu partorisce.

Quando il fico fiorisce e il mulo partorisce, cioè mai.

 

330. Quanno vié tu, a vorpe ha già cenato.

Si dice a qualcuno che interviene, quando già è stata presa una decisione.

 

331. Quattro e fìcchit’i ‘n bocca!

Tonto! Parole accompagnate da un eloquente gesto della mano, portata alla bocca.

 

332. Rifasse co l’ajettu.

Detto di chi aveva aspettativa più grandi, accontentarsi del poco che è riuscito a ottenere, far buon viso a cattiva sorte.

 

333. Rifrescà l’oro.

Rinnovare il pegno, pagando gli interessi.

 

334. Riggirà comme ‘n pedalinu.

Fare quello che si vuole con qualcuno o qualcosa, raggirare.

 

335. Riì ‘n bócca a quadunu.

Di una notizia, giungere agli orecchi di chi sarebbe meglio non la sapesse.

 

336. Rimagnasse tutto o vangato.

Perdere tutto quello che si aveva.

 

337. Rimané a do.

Restare senza un soldo, senza niente.

 

338. Rimétte a paro.

Compensare.

 

339. Ripià gallu.

Ringalluzzirsi.

 

340. Rrivà doppo i fòchi.

Arrivare alla conclusione, quando qualcosa è terminato o deciso.

 

341. S’ha magnato pure a seconda de a somara.

Parrebbe il caso di associare questo modo di dire all’uso di mangiare il puledrino di asino al forno: la seconda in gergo è la fuoriuscita della placenta dopo il parto, quindi il detto dovrebbe significare che si è mangiato tutto il puledro, compreso la placenta, forse in riferimento a un mangione o a un avido.

 

342. S’ha missu u piattinu sopr’a botte.
Variante: u bicchierinu. Detto di chi aveva indossato un cappello troppo piccolo per la sua testa.

 

343. Santaccia rippicca i canestri.

 

344. Sapé fà puro l’occhi ai puci.

Essere una persona assai industriosa.

 

345. Sarta chi pò, disse u rospu a ranocchia.

 

346. Se magnerìa puro u rimóre d’a màghina.

Detto di un mangione sempre affamato.

 

347. Sentisse i fucerdolini ‘n petto.

Provare una strana agitazione.

 

348. Senza dì né bestia, né asinu.

All’improvviso.

 

349. Senza sapé né córpa né peccatu.

Essendo completamente all’oscuro, completamente estraneo alla vicenda.

 

350. Se poteva riccoje co u lanterninu.

Variante: co u cucchiaìnu. Detto di chi è ridotto male a causa di un incidente o simili.

 

351. Se ‘ppiccherìa puro a coda d’u somaru.

Detto di persona molto vanitosa.

 

352. Se vedémo a ceci freschi.

Ci vediamo fra molto tempo.

 

353. Se vedemo a tre quarti de fora da Ronci.

L’informatore non dà il significato, che resta oscuro. Ronci era il proprietario di una macelleria, non lontana dalla piazza centrale; forse era un solo un modo furbesco di salutarsi? Oppure, un modo per darsi appuntamento a un bar o a un’osteria?

 

354. Sgreccia:

più magna e più se ‘nneccia.

Detto in riferimento a chi mangia molto, ma non ingrassa.

 

355. Sgriccià a panza.

Sfamarsi.

 

356. Si comme Filonzi:
andò sta na fetta de paccondito ce sta’ tu.

Detto a qualcuno che partecipa spesso a pranzi, cene, ecc… Filonzi era una guardia municipale di Genzano.

357. Si ero ‘nduina me chiamevo Cocozza.

Gioco di parole tra i due significati di ‘nduina: indovina e seme della zucca. Risposta scherzosa per dire: non leggo il futuro.

 

358. Si magnato o dórce? Mo caca l’amaro!

Detto a chi si lamenta delle conseguenze di qualcosa che, in un primo momento, era piacevole.

 

359. Sinnò tòcca ‘mpiccallu.

Altrimenti sono guai!

 

360. Si se n’accòrgino e budèlla!

Si dice a un bambino per prenderlo bonariamente in giro quando piagnucola per via di una caduta o una lieve ferita.

 

361. Si sórdu da na recchia?

Così si domanda a chi non sente o fa finta di non sentire.

 

362. Si te rode, grattite!

Detto a chi è nervoso, sottintendendo la parte che prude…

 

363. Si te scotta, sóffice, carogna!
Cfr. SU: a chi scotta ce soffi.

 

364. Si te tenesse dipinta a na chiappa, m’a tajeria.

Non voglio avere niente a che fare con te.                                             

 

365. Si trovato Cristo a mète e a Madonna a riccoje o grano.

Hai una gran fortuna. Si può anche dire: tu vorristi Cristo a mète e a Madonna a riccoje o grano, e in questo caso il significato è: vuoi una cosa irreale, impossibile (T16).

 

366. Si tutti i becchini portessero i lampiò,

a Genzano vecchiu sa’ che ‘lluminaziò.

 

367. Si tutti i celletti conoscessero o grano…

Per fortuna che gli intenditori sono pochi.

368. Si tutto va be’ sémo ruvinati,

sinnò stémo ‘n mezzo a ‘n mare de guai!

 

369. Smòve o nervóso.

Far innevorsire.

 

370. Sò fichi d’ombra!

Sono guai!

 

371. Sò fichi maóni!

Variante del precedente, con identico significato.

 

372. S’o saprémo a ridì.

Vedrai in futuro se non ho ragione.

 

373. Sò stóccu ‘n mèzzu.

Sono stremato, spossato.

 

374. Spaccà u centesimu.
Lesinare, risparmiare.

375. Spettà a l’èllera.

Aspettare al varco.

 

376. Spoja ‘n artare e ne veste natru.

Lavora in modo inconcludente, senza costrutto.

 

377. Stà a cazzìcchi comme e nocchie.

Stare come sardine in scatola, stare accalcati in uno spazio ristretto.

 

378. Stà arreto comme e palle d’u cane.

Variante: va sempre arreto, comme a coda d’u porcu.

 

379. Stà a petturina.

Stare a prendere il sole (soprattutto d’inverno).

 

380. Stà a pezzi comme a tonnina.

Essere distrutto.

 

381.  Stà a schiumà.

Soffrire per il caldo afoso.

 

382. Stà copintu.

Essere impalato.

 

383. Stà finu.

Metterci un’eternità, non finirla più, stare fresco.

 

384. Stà guittu.

Essere molto povero.

 

385. Stà sempre ‘n confusió.

Partecipare a ogni iniziativa, trovarsi sempre in mezzo.

 

386. Steva ‘ncora ‘n culu a’a Luna.

Doveva ancora nascere.

 

387. Strillà comme ‘n gainu.

Strillare come un ossesso.

 

388. Struggese comme na cannela.

Dimagrire troppo.

 

389. Tacca Nera,

parte a mmatina e rivè a sera.

Variante: Zènghela Nera. Altra variante: Tacca Nera va pe mela. Si dice così di chi sta in giro tutto il giorno.                                                      

 

390. Tanto n’a ‘ntènne a légge de chillu Cristu.

Non riesce proprio a capirla.

 

391. T’a si passata quajósa.

Te la sei vista brutta.

 

392. Tè a cattiveria che gn’esce da e récchie.

È cattivissimo.

 

393. Te conóscio da péru.

Inutile che cerchi di farmi credere di essere quello che non sei (T16).

 

394. Te credi de potè pià a vacca pe i cojoni?

Detto a qualcuno che vuole approfittarsi della situazione: pensi di potermi prendere per i fondelli?

 

395. Te do ‘n carciu ‘ndò te senti mejo.
Ti do un calcio all’inguine.

396. Tè du’ labbra comme u toru de Farfaricchiu.

Detto di persona con labbra molto grandi. Farfaricchio è il nome di un folletto spesso presente nelle tradizioni folcloriche laziali, a volte associato anche al diavolo. Evidentemente, era immaginato a cavallo di un toro.

 

397. Te faccio e labbra comme a somara de Ceccòla!

Ti riempio di schiaffi.

 

398. Te faccio neru comme ‘n cappellu de prete.

Ti riempio di botte.

 

399. Te fa male a panza?

Chiama Costanza.

Scherzoso invito, rivolto a chi si lamenta.                                                             

 

400. Te fa mostrà u culu co sette camicie.

Ti fa vergognare.

 

401. Te fanno camminà pe travèrzo cómme i ranci.

Ti ingannano come vogliono.

 

402. Te leva i pedali senza sfilatte e scarpe.
Detto di una persona scaltra.

 

403. Te mostra u culu co sette camicie.

È capace di ogni cosa, di farti credere ogni cosa, in senso più negativo che positivo (T16). Cfr. il detto: te fa mostrà u culu co sette camicie.

 

404. Tené a capoccia comme ‘n pisciatore.

Essere stupido o insensato.

 

405. Tené a ciancinella au nasu.

Essere ingenui.

 

406. Tené a fame scritta ‘n faccia.

 

407. Tené a zélla.

Essere molto povero.

 

408. Tenecce u canì.

Essere accanito. Altri (T1) spiegano: diretto a chi stravince al gioco.

 

409. Tené comme a rosa au nasu.

Custodire con cura.

 

410. Tené e lacrime ‘n saccoccia.

Detto di bambini che piagnucolano spesso.

 

411. Tené e pòste.

Avere già acquirenti o clienti fissi, sapere già a chi piazzare merci.

 

412. Tené e saccocce a ciammaruca

Essere molto tirchi.

 

413. Tené i calóri.

Essere accaldati, avere le caldane.

 

414. Tené na lengua comme na lavannara.

Essere pettegoli.

 

415. Tené na panza comme na subbia.

Variante: comme ‘n ombrellu chiusu. Essere magri o affamati.

 

416. Tené ‘n muccu de paccondito.

Avere un aspetto florido.

 

417. Tené più buffi de ‘n lepre.

Essere pieno di debiti.

 

418. Tené puro o latte d’a formica.

Avere tutto.

 

419. Tené u cervèllu ‘mmannatu.

Variante: tené a capòccia ‘mmannata. Essere uno scapestrato, un irresponsabile.

 

420. Tené u fiore au culu comme a cocozza.

Essere molto fortunati. Anche in senso antifrastico.

 

421. Tené u gargaròzzu pelosu.

Essere un mangione.

 

422. Tené u partafòju a orghinettu.

Essere molto tirchio.

 

423. Tenevi o mèle ‘n cima a e dita e n’ t’o si saputo leccà.

Si dice a qualcuno che, per propria colpa, ha perso una ghiotta occasione.

 

424. Tengo da fà più io che chi more de notte

Sono impegnatissimo.

 

425. Te pòzzino ‘ndorà e ‘nzuccherinellà.

Un complimento che si fa ai bambini piccoli (l’immagine è presa dalle frittelle... quindi è un equivalente affettuoso di va’ a farti friggere!)

 

426. Te pozzino trovà a ride comme a luna de Bagni!
L’espressione si spiega con il fatto che nella vetrina della drogheria-pizzicheria di Remigio Bagni, all’angolo tra via Livia e il Corso, c’era una pubblicità che ritraeva una luna piena nell’atto di addentare, storcendo la bocca, una tavoletta di cioccolata…


 

427. Te ritrova puro ‘n capo a ‘n tignosu.

È caparbio, petulante, uno che non ti molla.

 

428. Te saluto, scuffia!

Si dice così di un’occasione persa.                                        

 

429. Te se pò comprà chi n’ te conosce.

Ti conosco, mascherina! Al detto a Roma era legata una storia: un contadino sciocco, a cui è stato fatto credere che il suo somaro rubato si era ritrasformato in uomo dopo l’espiazione della pena, ritrova il somaro Ripiscitto alla fiera e gli dice: Ah ah, cciarisei cascato! Hai commesso quarch’antro sacrileggio! Nun t’è ggiovata la lezzione de ll’antra vorta? Adesso stai fresco! Pe’ mme nun t’aricompro ppiù ddavero! Cuccù: tte pô ccomprà cchi nun te conosce! (TP, pagg. 307-309).

 

430. T’e sfìlino dall’ógna.

Ti sfilano dall’unghia le busse: fanno tutto per farsi picchiare.

 

431. Te ‘ttacchi cómme a palatana.
 
Sei una piattola.

 

432. Tié fame?

Tira a códa a u cane,

che te dà pane e salame.

Rivolto soprattutto a bambini che chiedono di mangiare qualcosa fuori orario, per invitarli scherzosamente a tacere.

 

 

433. Tirà a mèrcu.

In senso proprio, colpire con un sasso, sfregiare. In senso figurato, disdegnare, non amare.

 

434. Tirà de longo.

Rimandare sempre.

 

435. T’i vénne pe alici e po’ te dà e sarde.

Detto di persona infida, ingannatrice.

 

436. Tòrcise comme ‘n vitabbiu.

Contorcersi (per il dolore).

 

437. Ttaccase puro a’a piluccia d’a colla.

Essere bramoso di tutto.

 

438. T’u beverissi dentro a ‘n bicchiere d’acqua.

È una persona cristallina.

 

439. U filu sta a filu,

u piommu sta a piommu,

u muru è storto.

Si dice così quando qualcosa, nonostante tutti gli sforzi, non riesce bene.

 

440. U più pulitu tè a rogna.

Detto in genere per indicare disonestà di gruppi di persone, più che la loro sporcizia fisica.

 

441. U prete ha ditto ammèn.

Non c’è più niente da fare.

 

442. U tè lóngu comme u somaru de Madèva.

Madeva, alterazione di Amedeo.

 

443. Va be’ ‘n po’ ‘n po’.

Espressione di stizza, impazienza; equivale grosso modo a: ora si esagera.

 

444. Va’ a Civita a mette giudizziu.

I civitani, gli abitanti di Lanuvio, sono considerati dai genzanesi gli stupidi per antonomasia. 

 

445. Va’ a fà de bè ai somari…
Si dice quando qualche favore che si fa viene accolto con ingratitudine: appunto come a volte fanno i somari, capaci di scalciare chi gli dà da mangiare.

446. Vajo all’orto de zi’ Pio,

si n’ce sta issu, ce sto io.

Era un modo furbesco per dire “vado a rubare nell’orto degli altri”, da cui anche l’espressione: bazzicà l’ortu de zi’ Pio (T18).

 

447. Va ‘n piazza pe promette e prega Dio de nun trovà.

Cerca lavoro e si augura di non trovarlo.

 

448. Vecchi sò i panni.

Complimento rivolto a un anziano che si lamenta dei suoi anni.

 

449. Venì d’a montagna d’u  sapó

Essere molto ingenui. Espressione idiomatica di origine romanesca (montagna del sapone era detto nei tempi passati il quartiere di Primavalle, e i suoi abitanti venivano considerati dei sempliciotti).

 

450. Venì d’a Sgurgola.

Variante del precedente, con lo stesso significato.

 

451. Volé fà e nozze co i fónghi.

Voler fare bella figura senza spendere molto.

 

452. Vólino e stòzze.

Si usa quest’espressione per indicare il rinfacciarsi a vicenda di fatti passati.

 

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