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Stornelli

Fino a qualche decina di anni fa gli stornelli facevano ancora parte integrante della vita dei nostri paesi. Ancora capitava di sentirli cantare per strada, trasportati dal vento, e c’erano stornellatori per così dire professionisti, che facevano il giro delle fraschette e che, in cambio di un buon bicchiere di vino, intonavano i loro canti per intrattenere gli avventori. Oggi gli stornelli vengono ancora cantati in qualche occasione (serenate sotto la finestra alla vigilia del matrimonio; nelle osterie-trattorie rimodernate in finto stile rustico, ecc…), ma è chiaro che si tratta ormai di un retaggio del passato, una tradizione folcloristica, più che qualcosa di vivo e attuale. Gli stornelli qui riportati sono assai vari sia per qualità, sia per linguaggio. Talvolta sono rielaborazioni locali di canti diffusi anche altrove, che hanno i loro centri di diffusione soprattutto a Roma e in Toscana, per questo la lingua usata è per lo più un italiano-romanesco, qua e là contaminato da elementi di pronuncia e lessico genzanese, ma ve ne sono diversi certamente conosciuti solo in ambito locale, che presentano caratteri genzanesi assai più accentuati, sia per quanto concerne i contenuti, sia per il linguaggio.

La maggior parte delle composizioni è conforme allo schema metrico classico dello stornello, ossia presenta un primo verso di cinque sillabe – di solito con l’invocazione a un fiore – e due versi di undici sillabe (l’ultimo verso è a volte ipermetro, in quanto dopo le prime sette sillabe c’è una forte cesura a cui fa spesso seguito un quinario di chiusura), il secondo in assonanza, il terzo in rima con il primo. Tuttavia, sono frequenti le variazioni rispetto a questo schema tradizionale, per esempio stanze di tre o quattro endecasillabi, e non sempre la metrica di composizione è impeccabile, anche se spesso la colpa di ciò è da imputarsi alle interpolazioni o modifiche introdotte dagli informatori (e, in alcuni casi, dalle trascrizioni a orecchio dei primi raccoglitori, non sempre – pare di poter dire – impeccabili). Anche se abbiamo tentato di aggiustare la metrica dove ci pareva più opportuno, non è da escludere che anche i versi zoppicanti siano stati creati così, da improvvisatori (con termine tecnico immentatori, probabile ibrido popolare di inventori e mente) che avevano scarso orecchio musicale e che adattavano alla meglio i loro versi alle semplici melodie degli stornelli.

 

Abbiamo deciso di presentare gli stornelli in ordine alfabetico e non dividerli per tematiche (amorosi, per dispetto, ecc…), anche perché spesso il tema è così generico che non si riesce a farli rientrare in una categoria ben precisa. Occorre aver presente che talvolta uno stornello si presenta in una forma composita, costituito da parti eterogenee, unite più dall’assonanza di rima che dal senso. Nelle note abbiamo cercato di indicare le varianti, possibili fonti ed eventuali correzioni.

 

1. A Genzano sò tutte morette,

                             a Ariccia sò tutte ciovétte,

                             a Arbano sò perzica sfatte,

                             a Nemi sò tutte stortacce¹ (T10).

¹ Cfr. lo stornello 55, di cui questo sembra una rielaborazione improvvisata alla meglio.

 

2. A la finestra mia ce sò li vasi,

                             a la finestra tua li panni stesi,

                             quest’è l’urione¹ de li ficcanasi (T2).

¹ Qui e in seguito T2 riporta sempre l’urione, ma potrebbe intendersi anche lu rione.

 

3. A la finestra tia ce sò i sportelli

                             e ce vènno a cantà li pappagalli,

                             muccacciu¹ spizzicatu da l’ucelli (T1).

¹ Alterazione di muccu, faccia, grugno.

 

4. A la finestra tia ce sò li vasi,

                             tutti l’amanti ce se sò confusi.

                             Io me ce sò confuso guasi guasi (I1)¹.

¹Riportato con varianti minime già da T12, pag. 86

 

5. A la finestra tua ce sò le tènne;

                             mo te si fatta na signora granne.

                             Accidentaccio a voi e chi ve pretènne¹! (T2).

¹ pretenne: qui nel senso tecnico di chiedere in moglie, come nell’espressione letteraria

pretendere alla mano di una donna

 

6. A la finestra tua ce sò li vasi,

                             e co la scusa d’annacquà li fiori

                             a tutti li regazzi tiri baci (T12)¹.

¹ L’ultimo verso è incompleto nella trascrizione originale: a tutti… tiri li baci.

L’abbiamo integrato a senso.

 

7. A la gente¹,

                             e quanno te lo pii sso mercante?

                             Te fa patrona de l’acqua corrente (T12).

¹ Nella trascrizione originale: a la viente, che apparentemente non ha senso. Integriamo

in modo arbitrario. Un’altra possibile lettura è: A la viante.

 

8. A la mamma der mi’ amore cortellate¹,

                             e fàtignele grosse le ferite,

                             spaccàtigne el coraccio come le rape² (T2).

¹ Il verso è ipermetro. Forse c’è da leggere: a’a mamma, ecc…

² Altro verso ipermetro. Forse c’è da leggere: comme e rape.

                                     

9. A l’amor mïo gne s’è ritirato,

                             tuttu u corpettinu de velluto,

                             perché a matre nu’ gne l’ha stirato (T1).

 

10. A piazza Margherita ce sò e belle,

                             se portino li specchi pe le vigne,

                             pe fasse ricaccià le tarantelle¹ (T5).

¹ Non è chiaro il senso di quel tarantelle. È possibile che ci sia qualche gioco di parole con un termine tecnico del gergo dei vignaroli.

 

11. A sora Nanna,

                             a la finestra tia ce sò le corna:

                             parino du vovetti¹ de campagna (T2).

¹ Attualmente vovetti non è più usato ed è sostituito da bovetti, come riportato anche da una variante dello stornello registrato da T1.

 

12. Amore mio,

nun t’ammalà, ché lu spidale è pienu

                             e si t’ammali tu me mòro io (T1).

 

13. Amore mio,

                             nun te pijà li fiori da gniciunu,

                             ché ’n ber garofolettu t’o do io¹ (T1).

¹ Altre varianti: nun pijete li fiori da gnisuno, / ché ‘n ber garofoletto ve lo do io (T2); nun piate li fiori da nessuno,/un ber garofoletto ve lo do io (T12).

 

14. Amore mïo, metti, metti legna,

                             fino su ’n cèlo fa’ ’rrivà la fiamma:

                             hai voja a mormorà, lenguaccia indegna! (T12)

 

15. Amore mio, nun giràne la sera;

                             ch’io la notte nun ho riposo un’ora,

                             e tu me fai vive sempre ’n pena (T2).

 

16. Amore mïo, nun me ne fà tante:

                             sò piccolina, e me le tengo a mente.

                             Un giorno te le spiego tutte quante (T2)¹.
¹
Cfr. lo stornello raccolto da T17 (pag. 47), sentito a Genzano anche da T12: Amore, amore, nun me ne fà tante,/sò piccolina, e me le teng'a mente/, un giorno me le sconti tutte quante.

 

17. Amore mio, nun te pià pena¹,

                             ché de le donne non c’è carestia:

                             da Roma n’è ’rrivata na barca piena (T12).

¹ Forse occorre leggere: pià sta pena.

 

18. Amore mïo, quanto bello sei!

                             De rimirarte nun me sazio mai,

                             la luce l’hanno persa l’occhi miei (T2).

 

19. Amore mio, te vojo tanto bene:

                             e le gente¹ che ce vònno male

                             lo fanno pe levàtteme dar core (T15).

¹ Forse occorre leggere: tutte le gente.

 

 

20. Anda¹ che patri!

                             A la finestra co trecento vetri,

                             manco a li Cappuccini² tanti frati (T2).

¹ Guarda.

² Riferimento alla Chiesa (e convento) di San Francesco d’Assisi (XVII sec.), appartenente ai Cappuccini, uno degli edifici più famosi dell’antica Genzano.

 

21. Angelo dell’inferno, fatte frate

                             e vieni a convertir la bella mia:

                             si¹ la trovi piena de peccati,

                             prendila pei capelli e pòrtitela via (T15).

¹ Forse, per regolarizzare la metrica, occorre leggere: si poi oppure e si.

 

22. Arzanno l’occhi ar cèlo vidi a voi,

                             subbitamente me ne ’nnamorai,

                             fra mezzo a tante stelle ’r sol vedei (T12).

 

23. Avete l’occhi piccolini e tondi,

                             quanno li giri lo sole commandi,

                             co lo tuo ben parlà l’omo confondi¹ (T2).

¹Notare il cambio dal voi al tu, frequente negli stornelli.

 

24. Bella che a la fontana ve ne jate,

                             a conca butta e voi n’ ve ne curate;

                             e io che spetto voi, mòro de sete (T5)¹.

¹ L’acqua come simbolo dell’amore con cui la donna amata solo può dissetare l’innamorato.

 

25. Bella che nun le fanno più le mamme,

                             così carina come siete voi,

                             er Papa ce l’ha messi quindici anni¹

                             in indurgenza a chi dorme co voi (I7).

¹ Da leggere come un’unica parola: quindiciànni.

 

26. Bella regazza,

                             che li volete l’òmmini pe forza,

                             ve séte fatta mette e carte ’n piazza (T1).

 

27. Bella regazza che cammini a zompi,

                             attente che nun caschi a faccia avanti,

                             quello che porti ’n petto te lo rompi (I1).

 

28. Bella regazza che fili la lana,

                             si me la vòi filà mezza decina,

                             me ce fo la barretta a la marinara¹ (T2).

¹ Il verso è ipermetro. Forse da leggere: a’a marinara. Barretta qui nel senso di berretto.

 

29. Bellina ch’abbitate ar primo piano,

                             ve lo godete lo vento marino,

                             séte la più bellina de Genzano (T12).

 

30. Bellina séte,

                             co l’acqua de le rose ve lavete,

                             più ve lavete e più carina séte (T15).

 

31. Benedico la piazza de Genzano,

                             la Chiesa Nova e la piazza der Domo,

                             tutte ste regazzette a mano a mano (T2)¹.

¹ Altra versione (T1): Benedico a piazza de Genzano/a Chiesa Nova e a piazza d’Ardomo,/tutte ste ragazzette a mano a mano.

 

32. Canto li stornelli e ne saccio tanti,

                             ne posso caricà du’ bastimenti:

                             chi ne sa più de me se faccia avanti (T15)¹.

¹ Altra versione: Io de stornelli ne so tanti,/ce n'ho da caricà sei bastimenti:/chi ne sa più de me se faccia avanti. Il primo verso in questa versione è di nove sillabe.

 

33. Caro Giovanni,

                             perché nun te pii móje e te la venni,

                             co li quatrini te ce fa’ li panni? (I1)

34. Ci avesse la virtune de lo sole

                             a la cammera tua vorrei entrare

                             pe riccontatte le male passione (T12).

 

35. Ci avessi l’occhi neri ssa regazza,

                             nun se trovasse simile bellezza:

                             ci ha l’occhi turchinelli che la guasta (T2).

 

36. Ci avete du’ bellissimi colori,

                             che ve ce pònno accenne li¹ sorfaroli:

                             e chi vò le bellezze venga da voi² (T2).

¹ Forse occorre leggere: i sorfaroli.

² Verso ipermetro.

 

37. Ci avete i riccioletti fatti a scale,

                             ogni piccolo vento ve li move

                             e speciarmente quello maestrale (T12).

 

38. Ci avete l’occhi neri come li mia¹,

                             e semo du’ gialloni tutti e dua:

                             si se piamo, che bella parìa (T2).

¹ Forse occorre leggere: come i mia. L’ultimo verso significa: se ci mettessimo insieme, sai che bella coppia saremmo.

 

39. Ci avete l’occhi neri e me guardate,

                             nun me sapete dì cosa volete,

                             volete ’r còre mio, perché n’ parlate? (I1)

 

40. Ci avete l’occhi simile a li miei;

                             chi me pò commandà? Solo che voi:

                             commanda, amore, ché padrone sei (T2).

 

41. Ci avete ssi riccetti fatti a molla,

                             e ’n mezzo er pidocchietto ve ce balla,

                             er puce ve ce fa da sentinella¹ (I1).

¹Questo stornello riecheggia una canzoncina di Petrolini in Giggi er bullo (1903):

Ciavete li riccetti fatti a molla/drento c’è er pidocchietto che ce balla/drento c’è er

pidocchietto che ce balla/la cimice ce fa la sentinella.

 

42. Ci avete ssi riccetti lunghi ’n dito,

                             ’n mezzo ce n’avete uno ’ndorato:

                             beato chi sarà vostro marito (T2).

 

43. Ci avete ssi riccetti ’ntorno ’ntorno,

                             l’occhi morelli che morì me fanno:

                             pari la stella aurora che spunti al giorno¹ (T2).

¹ L’ultimo verso ha una sillaba in più.

 

44. Chelle de Roma,

                             pure a Genzano ce n’è quarcheduna,

                             veste de rosso e fa la rosicona (T12).

 

45. Che serve che te lavi e che t’allisci?

                             Che serve che te facci ssi riccetti?

                             Tanto si caccolósa e nun comparisci¹ (T2).

¹ Forse occorre leggere: n’ comparisci. Caccolosa è da intendersi come mocciosa. Nun comparisci qui vale: non hai un bell’aspetto.

 

46. Che si ’mmazzata, sta’ sempre a lo specchio,

                             te spuntino le corna come l’abbacchio¹,

                             roppicojoni² de Genzano Vecchio (T12).

¹ Verso ipermetro..

² T12 lascia l’insulto non precisato: si na r… Integriamo in modo arbitrario.

 

47. Che te credevi de famme morìne,

quanno, bellino, me lassasti annàne?

Avevo male, e m'hai fatto guarìne! (T17)

 

48. Chi de le morette ne dice male,

                             nun date retta, sò tutte bucie,

                             pare de stà all’arbergu der Quirinale¹ (T12).

¹ L’ultimo verso nella trascrizione originale era: me pare ’e stà, ecc…: il verso è probabilmente corrotto e sembra preso da un altro stornello; notare l’elisione della d (‘e stà), fenomeno comune dei dialetti campani, ma non del genzanese. Per evitare la sillaba in più si potrebbe leggere: pare de stà all’arbergu ar Quirinale. Si potrebbe anche migliorare l’eufonia del primo verso correggendo: E chi de le morette dice male. Ma cfr. lo stornello 148, dove pure compare questo verso. 

 

49. Come te pòzzo amà che ci ho marito?

                             Prennite mi’ sorella, me si cugnato,

                             le veci le farai de mi’ marito (T12).

 

50. Così è la donna:

                             porta du’ mele ’n petto e n’ se le magna,

                             quanno prende marito le conzégna (I1)¹.

¹ Variante (T15): Avessi la virtù che ci ha la donna:/porta due mele ‘n petto e nun se lagna,/quanno pia maritu gne le consegna.

 

51. De canzoncine io ne so un sacco,

si me le metto in collo nu' le porto,

ne fo un fagottello sott'er braccio (T17)¹.

¹Il raccoglitore (Mario Menghini) osserva in nota: «Tal stornello m'è stato cantato da una genzanese, la quale, non so perché, disse canzoncine in luogo di stornelli». Per il fatto che l’informatrice fosse di Genzano abbiamo deciso di includerlo a pieno diritto nella nostra raccolta. Forse al primo verso so è italianizzazione di saccio, che poteva ben fare rima con braccio (proponiamo congetturalmente questa ricostruzione per il primo verso: de canzoncine io quante ne saccio).

 

52. De giugno che se fanno le ‘nfiorate,

                             itu è l’amore mio a coje e rose.

                             Attenta ae spine, ché ve puncicate¹ (T1).

¹ Variante: A giugno se ne vanno a’a ‘Nfiorata:/amore mio, cojete e rose,/attenta ae spine, ché ve puncichete (T5).

 

53. De ritornelli ne saccio na grégna¹,

                             me l’ha portati mamma da’a campagna,

                             pe rigalalli a voi, boccuccia degna. (T12).

¹ In senso proprio, covone; qui è usato nel senso figurato: gran quantità.

 

54. Dimme si me vo’ bene e si te piacio:
 sono vicino ar foco e nu’ me abbrucio
 e tu m’abbruceresti per un bacio (T16).

55. E dietro de lo mare c’è la Turchia¹,

                             me l’ho trovata na diva² che m’ama,

                             sono l’occhiucci de la bella mia (T12).

¹ Il primo verso è ipermetro.

² Diva vale qui dea, amica del cuore. Come annota il Bonfigli, è parola rara negli stornelli dell’Italia centrale, e si incontra con maggiore frequenza nei canti del Sud.

 

56. E drent’Arbano sò tutte morette:

                             drento la Riccia sò persica sfatte

                             e a Genzano sò briccocolétte (T2)¹.

¹ cfr lo stornello n.1

 

57. E l’acqua de lo mare è turchinella,

                             la lengua de le donne cuce e taja,

                             e speciarmente quella de tu’ sorella¹ (T12).

¹ Stornello riportato anche da T2 con alcune varianti: L’acqua di lo mare è torchinella,/ la lingua di le donne cuce e taglia/e speciarmente quella de tu’ sorella. Notare come in questa versione le caratteristiche dialettali sono più che annacquate e la metrica piuttosto irregolare. Abbiamo aggiunto, seguendo in questo T2, e all’inizio del terzo verso (da leggersi con una pausa tra quella e de tu’ sorella).

 

58. E lo mi’ amore m’ha detto ch’io canta,

                             a la malinconia non vò ch’io penza,

                             che me conzola¹ de la lontananza (T12).

¹ Anche questo conzola, come i precedenti canta e penza, è da interpretare come

congiuntivo presente (che io mi consoli), retto da m’ha detto.

 

59. E lo mi’ amore m’ha mannato a dire

                             che me provveda, ché me vò lassare,

                             questi sò córpi che me fan¹ morire (T12).

¹ Nella trascrizione originale: fa.

 

60. E lo mi’ amore se chiama spaccone,

                             ché si pe ss’orti comincia a spaccane

                             spacca le legna pe sette stagione (T12).

 

61. E me ne vojo annà de là dar mare,

                             pe compagnia me lo porto ’r sole,

                             che me fa luce a lo mio camminare (T12).

 

62. E me ne vojo annà de là dar mónno

                             a ritrovà le donne che la dànno,

                             a chi la bòna sera, a chi ’r bon giorno (T12).

 

63. È ’nutile che te ’nfarini tutta!

                             Chié a bocca che me pare na ciavatta:

                             a ti manco lu Neguse t’adatta¹ (T1).

¹ T’adatta qui sarà da interpretarsi come ti si adatta, ti si addice. Oppure, più semplicemente: ti vuole. Il riferimento al negus fa pensare che lo stornello sia contemporaneo alla guerra che l’Italia condusse a scopi coloniali contro l’Etiopia nel 1935, oppure addirittura alle precedenti campagne belliche in Somalia ed Eritrea.

                  

64. È partitu lo mio bello fra soni e canti,

                             Dio gli dia ’llegrezza e lo contenti,

                             occhi de perla e bocca de brillanti (T12)¹.

¹ Di questo stornello si conosce anche una variante toscana (in questo caso evidentemente l’originale: È partito il mio ben fra suoni e canti:/il ciel gli dia allegrezza e lo contenti./Bocca di perle, e occhi di brillanti! Notare anche l’inversione tra bocca e occhi nel terzo verso), il che dimostra come spesso i problemi metrici siano dovuti a interpolazione posteriore o difetto di memoria di chi canta lo stornello.

 

65. E pe sto vicoletto ce sò li burli¹,

                             nun ce passà, burletto, ché te taji:

                             Ce sò passati li burli più belli (I7).

¹ Variante antica di bulli.

 

66. E pe stu rione¹ che spesso ce passo

                             e non ci passo pe nessu’ ’nteressu,

                             co l’artri fo l’amore, co te me spasso (T12).

¹ Potrebbe leggersi anche st’urione, come trascrive sempre T2.

                  

67. E pe sto vicoletto ce tira¹ vento:

                             c’è na moretta che ce piace tanto.

                             Quer boja der suo padre n’è contento (I7).

¹ Verso ipermetro. Forse occorre leggere: E pe sto vicoletto tira vento.

 

68. E pe st’urione ce batte la luna,

                             n’ se¹ pò ’nciampicà, ch’è strada piana:

                             a fà l’amore co te nun c’è fortuna (T2).

¹ Forse occorre leggere, per regolarizzare la metrica: nun se.

 

69. E pe st’urione c’è passatu u lupu,

                             tutte le caccolóse s’è magnato;

                             a voi, caccolosèlla, nun v’ha¹ veduto² (T2).

¹ Per una metrica più regolare: n’ v’ha.

² Di questo stornello c’è anche una variante trascritta più recentemente: Fiore de lupo/tutte le cacalose s’è magnato/ a te, cacalosèlla, n’ t’ha veduto (T4).

 

70. E quanti n’ho girati de paesi,

                             e quanti n’ho guariti de mmalati!

                             A mmalatia tia è de nove mesi (T1)¹.

¹Riportato con varianti minime anche da T2.

 

71. E questo è ’r vicinato de le belle,

                             venite giuvinotti a prènne moje,

                             ne do quattro ar quattrin come le spille (T12).

 

72. E questo è ’r vicoletto de lo Scuro:

                             ce fossero trecento lumi d’oro,

                             ma se nun c’è ’r mio amore n’ c’è nessuno (I7).

 

73. E semo genzanese e semo donne,

                             annamo in guerra e nun portamo l’arme,

                             semo più forte noi che le colonne¹ (T12).

¹ Pare rifatto su uno stornello romano: Noi semo de li Monti e semo donne/ a litigà

ciannamo senza l’arme/ semo più forte noi che le colonne.

 

74. E si lo vostro nome non me dite,

                             io non ve dico ’r mio e voi penate,

                             ’r mio non ve dico e voi penerete¹ (T12).

¹ Ultimo verso forse da emendare: er mio nun ve lo dico, e penerete.

Di questo stornello c’è anche la variante trascritta da T2: Si lo vostro nome nun me dicete,/io nun ve dico il mio, e voi penate;/io nun ve dico il mio, e penerete.

75. E si tradite a mene¹ tradite ’n còre,

                             tradite na palomma senza l’ale,

                             tradite n’arma che pe tte² se more (T12).

¹ Verso ipermetro. Forse, per evitare la sillaba di troppo, occorre leggere semplicemente: a me.

² Arma è il termine poetico e aulico alma (anima), il che rende evidente la derivazione letteraria dello stornello. Anche qui brusco passaggio dal voi al tu.

 

76. E tira, vento,

                             e tu, che ’r core mio l’amavi tanto,

                             io te scrivevo pe divertimento (I7).

 

77. E va’ morimmazzatu, mo te¹ ce manno,

                             come me t’ho comprato te rivénno

                             e senza facce ’n sordo de guadagno (T12).

¹ Verso con una sillaba di troppo. Forse occorre leggere semplicemente: E va’ morimmazzatu, te ce manno.

 

78. Facioli neri,

                             e mannemelo a dì quanno te mòri,

                             te mannerò a pià l’angeli neri¹ (T12).

¹ L’ultimo verso è da intendere: manderò i diavoli a prenderti.

 

79. Facioli tonni,

                             è inutile, mamma mia, che te ce addànni,

                             tanto l’amore lo faccio pe l’Ormi (I1)¹.

¹ L’Ormi è un riferimento all’Olmata, un tempo gloria di Genzano, ormai rimasta solo come toponimo, perché di olmi lungo i viali non ce ne sono praticamente più. Secondo verso ipermetro.

 

80. ’Ffàccite a la finestra, angelu d’oro,

                             tu canti le canzone e io l’amparo¹,

                             tu spasimi pe me, io pe te mòro (T12).

¹ Le imparo.

 

81. ’Ffàccite a la finestra, Pimpapompa,

                             nun vedi che lo cèlo tròna e lampa?

                             Si tanta bella e nessun te se crompa¹ (T12).

¹ Compra.

82. ’Ffàccite a la finestra, ricciolona,

                             de i tuoi capelli ne vojo¹ na rama

                             pe metteli all’orlòggiu pe catena (I1).

¹ Variante: vorrei (T15).

 

83. ’Ffàccite a la finestra, ricciolona,

                             bùttime ’n goccio d’acqua si ce l’hai;

                             si n’ me lo vòi buttà, patrona sei (I1).

 

84. Fior d’amaranto,

                             la sera scrivo e la mmatina canto,

                             i fatti miei li faccio sapé ar vento (I1).

 

85. Fior de bammace¹,

                             quanno che canti co ssa bella voce

                             en còre me s’accènne na² fornace (T12).

¹ Bambagia.

² Trascrizione originale: a na fornace, che però non dà senso.

 

86. Fior de cardogne¹,

                             si² la fettuccia se misura a canne,

                             misùrite sta schucchia che te pènne! (T15)

¹ Variante: Fiore d’antenne.

² Integriamo per ragioni metriche (altrimenti verso di dieci sillabe).

 

87. Fior de castoro,

                             ora che me si visto me dispero;

                             io me l’ho fatto un altro amante nòvo (T2).

 

88. Fior de castoro,

                             sangue prezioso de cristallo ciaro¹,

                             tu spàsimi d’amore, io pe te moro! (T2).

¹ A meno che non sia un semplice refuso, è forma dialettale arcaica per chiaro. Cfr.,

per esempio: Il Jacaccio (canto I, 11, 3) E te ciariva più d’un profidioso.

 

89. Fior de cicoria¹,

                             me l’ha mannata² la mia mente in aria,

                             sta sempre a penzà a voi la mia memoria (T12).

¹ Nella trascrizione originale: fiore de foglia, ma è probabile errore mnemonico.

² L’ha mannata dovrebbe avere come soggetto sempre la memoria; in alternativa

si potrebbe leggere: me l’ha’ (hai) mannata, con cambio di pronome tra secondo

e terzo verso (tu/voi), frequente negli stornelli.

                  

90. Fior de cipolla,

t’ho visto ieri chiacchierà co chélla,

sarìa che la smettessi, pucinèlla (T6).

 

91. Fior de cocózza¹,

                             la donna ’nnammorata è mezza matta,

                             e quanno pia marito è matta tutta (T4).

¹ Zucchina.

         

92. Fior de cucuzza,

la mi’ regazza quanno caca schizza,

la pòzzino ammazzalla quanto puzza¹ (T16).

¹ Più che uno stornello a dispetto, sembra una parodia recente.

 

93. Fior de faciòli,

                             nun vedi che l’ha’ persi li colori,

                             chist’anno, bella, nun la spummidori!¹ (T12)

¹ L’ultimo verso è da intendere: non ce la farai a superare l’anno.

 

94. Fior de faciòli,

                             se sò mischiati li bianchi e li neri,

                             così se mischieranno i nostri còri (T12).

 

95. Fior de gaggìa,

                             io sò felice co vo’ altri dua:

                             ch’ar monno nun ce sta chi v’assomìa (I7).

 

96. Fior de gaggìa,

                             la più bella boccuccia è chella tia,

                             e ssa boccuccia è la passione mia (T1).

 

97. Fior de gaggìa,

                             li fii vònno bene a mamma sua,

                             io vojo bene a la regazza mia (T2)¹.

¹ C’è anche una variante ironica, trascritta più di recente (T15): Fior de gaggìa,/li pupi vanno bene a mamma sia,/li giuvinotti a la regazza mia.

 

98. Fior de giaggiolo,

                             l’angeli belli stavo¹ a mille ’n cielo.

                             Bellino come voi ce n’è uno solo (T2).

¹ stavo = stanno non è più del genzanese attuale, ma si è mantenuto nei dialetti

di Albano e Ariccia.

 

99. Fior de giaggiolo,

                             le stelle a mille a mille stanno in cielo,

                             bellina comme voi ce n’è una sola¹ (T15).

¹ Variante del precedente. Al secondo verso è stato aggiunto l’articolo prima

di stelle per ragioni metriche.

 

100. Fior de ginestra,

                             la vostra mamma n’ ve marita apposta,

                             pe avé sto fiore bello¹ a la finestra (T4).

¹ bello è nostra integrazione arbitraria per aggiustare metricamente il verso.

 

101. Fior de grugnale¹,

                             e di bellezze superate ’r sole,

                             e superate lo stato papale (T12).

¹Manca il primo verso. Lo integriamo in maniera congetturale.

 

102. Fior de le more,

                             e l’occhi de le donne sò catene,

                             l’uomo è ’ncatenato de pene amare (T12).

 

103. Fior de limone,

                             comme se semo ’ccompagnati bene:

                             tra la migragna e la disperazione!¹ (T10).

¹ Variante: io la migragna e tu la disperazione (T15).

 

104. Fior de limoni,

                             ho costruito casa co i mattoni

                             pe fà fà bella a ti, roppicojoni! (T15).

                  

105. Fior de livèlla,

                             te porto giù alle Pèntime, mia bella¹,

                             e si n’ ce vò venì, te porto a spalla (T15).

¹ L’informatore riporta rosa mia bella, ma è verso ipermetro. Pentime sono chiamati

i pendii scoscesi, per antonomasia quelli che scendono da Genzano verso il Lago di Nemi.

                  

106. Fior de livèllo,

                             mettéte la gallina accanto ar gallo,

                             e lo vedrete che ber giocarèllo! (T2)

                  

107. Fior de livèllu,

                             affàccete a la finestra brutto marro¹:

                             bùttime ’n goccio d’acqua co u² sorellu³ (T2).

¹ T1: brutta marru. Forse soprannome.

² Seguiamo qui la trascrizione di T1. T2: co lu.

³ Mestolo di rame per prendere l’acqua dalla conca.

 

108. Fior de melèlla,

                             arissomìji¹ a na cocózza gialla,

                             a coccia² de limone è tu’ sorella (T1).

¹ Assomigli.

² Buccia.

 

109. Fior de melèlla,

                             e giù pe lu stradò stanno a fà a palla,

                             la fija de Camilla¹ è la più bella (T12).

¹ Il nome Camilla è riportato a titolo di esempio, lo stornello si adattava a qualsiasi nome. Esiste una variante registrata più di recente (T5): su pe li stradoni stanno a fà a palla/ la fia de Moriconi è la più bella. Nell'antica toponomastica genzanese esisteva lo stradone di San Sebastiano e gli stradoni delle Olmate.

 

110. Fior de melèlla,

                             m’hai puncicato ’r core co na spilla,

                             me l’hai legato co na catenella (T12).

 

111. Fior de melisse,

                             tutte le pene mie t’ariccontasse

                             dentro na capannella, e po’ piovesse (I7)¹.
¹
cfr lo stornello raccolto da T17 (pag. 32),  che in effetti T12 dichiara di aver sentito anche a Genzano: Se tu sapessi..../tutte le pene mie t'arriccontassi,/drento 'na capannòla e ppoi piovesse.

                  

112. Fior de mimosa,

                             amore mïo nun me mette scusa

                             la sera quanno vié da la tua sposa (T15).

 

113. Fior de mughetto,

                             li ricciaroli co la rosa ’n pètto,

                             li genzanesi col garofolétto¹ (T15).

¹ Un’altra versione (T1) inverte i fiori: i ricciaroli co u garofoléttu,/i genzanesi co la rosa ’n pettu.

 

114. Fior de ’nzalata,

                             fàttice monichèlla, stella gradita¹,

                             io me ce fo guerriere di l’armata (T2).

¹ Verso ipermetro.

 

115. Fior de ’nzalata,

                             i genzanesi cércheno la dota:   

                             gne damo Camposanto e l’Annunziata¹ (T2).

¹ L’Annunziata è una chiesa di Genzano che apparteneva originariamente agli agostiniani. Fu riedificata nel 1736.

 

116. Fior de ’nzalata,

                             quanno che stai co l’artri ridi e burli,

                             quanno che stai co me fai l’ammalata (T12).

 

117. Fior de papaveru rossu,

                             pussa via, bruttu cane da caccia,

                             che tutte le mmatine va’ riccojenno l’ossu¹ (T15).

¹ Stornello abborracciato alla meglio, forse corrotto.

 

118. Fior de patate,

                             vojo tajà le palle all’arciprete,

                             così n’ se le fa più tante scopate¹ (I1).

¹ Altra versione dello stornello 154. Varianti (T15): fiore de pepe; così nun se fa più.

 

119. Fior de pisèlli¹,

                             me ’ncontri² pe la strada e non me parli,

                             solo me guardi co ss’occhiucci belli (T12).

¹ Il primo verso è nostra ricostruzione arbitraria, il raccoglitore non lo riporta.

² Preferiamo leggere così, rispetto alla trascrizione originale: m’encontri.

 

120. Fior de rampazzo¹,

                             e la mia bella tira l’acqua al pozzo,

                             e s’è strucca² la corda e disse: casco! (T12).

¹ grappolo (d’uva).

² Spezzata.

 

121. Fior de ricotta,

                             me vojo divertì come na matta

                             cantanno li stornelli fòr de porta (T2).

 

122. Fior de sermenti¹,

                             nun giòvino né lacrime né pianti:

                             pènzice quanno li fai² l’amancamenti³ (T2).

¹ Sarmenti.

² Forse occorre leggere: quanno fai l’amancamenti.

¹ Mancanze.

 

123. Fior de verbèna,

                             a u monnu nun c’è rosa senza spina

                             o core ‘nnamoratu che nun pena (T1).

 

124. Fior de vïola,

                             digne a la bella tia si è rotta o sana

                             a pila¹ che crompò a piazza Navona (T1)².

¹ Pentola.

² Già riportato con varianti minime da T2.

 

125. Fior de violette¹,

e le manine tue tante² ben fatte,

beato quell’anello chi te lo mette (T12).

¹ Manca il primo verso. Lo ricostruiamo in modo arbitrario.

² Così nella trascrizione originale, ma potrebbe essere anche un errore di stampa per tanto.

 

126. Fior de cipresso,

    accènnete, cannela, su quel sasso,

fa’ lume a lo mio amor, che pass' adesso (T17).

 

127. Fior di cipresso,

                             nun sò patrona manco de fà ’n passo,

                             tengo sti beccalumi¹ sempre appresso (T12).

¹beccalumi potrebbe essere variante di beccamorti nel senso di persone sciocche, stupide.

Non attestato altrove. C'è da notare che a Mompeo (RI) esiste la parola leccalumi nel significato di spasimanti, quindi non è da escludere che beccalumi potesse avere lo stesso significato.

128. Fior di le mòre,

                             niciuna stringa m’ariva a allacciare,

                             e quella del mio amore me strégne el core¹ (T2).

¹ Verso ipermetro.

 

129. Fiore d’ajetto,

                             ci amanca sopra il palco il tuo mattaccio

                             che fa cascà li nummeri dar tetto.

                             Si casca, se ruppe la schina:

                             lu va’ a riccòje a la Cappella Lisandrina¹ (T3).

¹ Stornello caudato attribuito a Musichettu, poveta di Genzano. Gli ultimi due versi sono

di nove e dodici sillabe. Lisandrina è alterazione di Alessandrina.

 

130. Fiore d’aprile,

                             l’amore mio è in Africa orientale,

                             per onorare a sua razza gentile¹ (I1).

¹ La propaganda infestava anche gli stornelli: il riferimento è alla guerra in Etiopia.

 

131. Fiore de bùzzichi¹,

                             perché quanno cammini tutta nnàzzichi?

                             Attente che pe e scale nun te rùzzichi! (I1)

¹ Buzzico, a Genzano come a Roma, è in senso proprio qualsiasi barattolo di latta.

 

132. Fiore de canna,

                             la mia regazza m’ha detto carogna

                             […]¹ (I1).

¹ Manca il terzo verso.

 

133. Fiore de canna,

                             e chi ve ci ha mannato, la Madonna?

                             O chella vecchiarella de Sant’Anna? (T1).

 

134. Fiore d’erbetta,

                             traditorella, me l’avete fatta,

                             fino ch’io canto vo’ gridà vendetta (T12).

 

135. Fiore de gatti, perché n’ te butti

                             dentro a lu sciacquatore¹ de li piatti?

                             Si na sciornétta² che dà retta a tutti (T15).

¹ Lavello, lavandino.

² Sciocchina.

                  

136. Fiore de grano,

                             e chi lo porterà l’anello d’oro?

                             E chi v’a bacerà, ssa bianca mano? (T2)¹.

¹ Riportato con varianti minime anche da T1.

 

137. Fiore de grano,

                             li Turchi sò ’rrivati a la marina,

                             li carrecchieri a le porte de Roma¹ (T12).

¹ Si tratta di uno stornello visibilmente eterogeneo, composito. Carrecchiere è variante antica

di carrettiere.

                                            

138. Fiore de grano,

                             lo lino che me vè da lu linaru,

                             la rosa che me vè da lu giardinu (T15).

 

139. Fiore de grano,

                             vedi lo grano quant’è piccolino,

                             è piccolino e tutti ce campamo (T12).

                            

140. Fiore dell’ormo,

                             vorrei tené lu libbru der comanno¹

                             pe discorre co voi un’oretta ar giorno (T12).

¹ Nell’originale: lu libbro. Il libro del comando è spesso presente nella tradizione folcloristica italiana ed è

l’equivalente della bacchetta magica: un libro in cui sono scritte le formule di tutti

i sortilegi e delle magie.

 

141. Fiore dell’orto¹,

                             bella, si nun me mòro tanto presto,

                             vojo vedé sta nave ’ndo va da porto² (I1).

¹ Integriamo arbitrariamente il primo verso, mancante.

² Verso ipermetro (del resto, confermato anche da T16). Il senso è: voglio vedere dove va in porto questa nave, ossia come va a finire questa storia. «Un ragazzo rifiutato dice alla ragazza: bella, se ti mariterai ci vorrà tempo, dunque si campo tanto, voglio vedere proprio chi ti sposi, se è meglio di me, dove approdi, dove vai di porto» (T16).

 

142. Fiore de lòto,

                             amore mïo nun girà la sera,

                             ché la gente de ti mormoréa¹.

                             Avòja a mormorà, léngua pezzuta²,

                             tu mormori pe me, io pe ti godo! (T15).

¹ Mormorava.

² In senso proprio, lingua appuntita, ma il senso qui è malalingua. Cfr. lo stornello 163, dove compare lo stesso verso.

                       

143. Fiore de mela,

                             tu cor mio amore ce faï la cara,

                             ma nun te lo pii manco si te fa’ nera¹ (I7).

¹ L’espressione manco si te fa’ nera è modo di dire ancora in uso. Il senso è: ti puoi sforzare quanto vuoi, ma non avrai mai il mio amore.

 

144. Fiore de menta,

                             vòjo cavà la radice a la pianta,

                             chi scappa dal mio còr più n’ ce rientra (T12).

 

145. Fiore de mòra¹,

                             chi non sa fà l’amore se l’ampara,

                             chi ci ha l’amante vecchio se lo rinnova² (T12).

¹ Il primo verso mancava, lo abbiamo integrato in modo arbitrario.

² Forse occorre leggere: chi ci ha l’amante vecchio lo rinnova.

 

146. Fiore de mòra¹,

                             ci avete ’n peperone² fatt’a pera,

                             na scucchia³ fatt’a forma de cucchiara (I1).

¹ Anche qui abbiamo integrato il primo verso.

² Da interpretarsi come grosso naso.

³ Grosso mento, bazza.

 

147. Fiore de mòra¹,

                             è ’n bellu focherellu senza fiara²,

                             te vojo fà escì l’occhi de fòra (I1).

¹ Abbiamo aggiunto in modo arbitrario il primo verso, mancante, supponendo che si tratti di uno stornello.

² Fiamma.

148. Fiore de mòre,

                             e io per voi me butterebbe ar mare:

                             ma come ho da fà io? Mamma non vòle (T12).

 

149. Fiore de mòre,

                             chi de le morette ne dice male¹

                             pija ’n cortello e spaccheje lo core (T12).

¹ Lo stesso verso compare nello stornello 48.

 

150. Fiore de mòre¹,

                             con me, bellino, non ce la pïane,

                             sò la sorella de l’immentatore² (T12).

¹ Stornello mutilo del primo verso, che abbiamo integrato arbitrariamente.

² Così era chiamato l’improvvisatore di stornelli. Il senso è: lasciami stare, perché altrimenti mio fratello ti svergogna per tutto il paese con i suoi stornelli.

 

151. Fiore de mòre¹,

                             prima ch’io lascio te, mio dolce amore,

                             vorrei vedere i monti camminare (I1).

¹ Primo verso integrato in modo arbitrario.

 

152. Fiore de nocchia,

                             méttite lu campanu e fa’ da vacca:

                             tutti se marìtino, a ti n’ te¹ tocca (T2).

¹ Trascrizione originale: nun te. Forse, per evitare l’accento irregolare in quinta sillaba, il verso è da emendare così: se marìtino tutti, a ti n’ te tocca.

                                   

153. Fiore de nocchia,

                             si te ’ncontro da sola pe la macchia,

                             te levo lu fascettu e te monto ’n groppa¹ (I1).

¹ Verso ipermetro, confermato del resto anche da un altro informatore (T15).

 

154. Fiore de pepe,

                             sotto a u zinalettu ce portete

                             a peparòla pe pistà lo pepe¹ (T1).

¹ Già registrato con varianti da T12: e sotto lo zinale la portate/la peparola pe pistà lo pepe.

Zinaletto, grembiuletto.

 

155. Fiore de pepe,

                             vojo tajà le braccia all’arciprete,

                             così n’ se le fa più tante marciate¹ (T3).

¹ Versione edulcorata dello stornello 117. Marciate in genzanese ha il senso di buffonate.

 

156. Fiore de pepe,

                                    tutte le fontanelle se sò seccate¹:

                                    povero amore mio, mòre de sete (I1).

¹ Verso ipermetro.

 

157. Fiore de pepe,

                                    mangiate e non me dite favorite:

                                    st’educazione¹ chi ve l’ha ’mparate? (T3).

¹ Educazione qui è plurale, e significa maniere.

 

158. Fiore de pèrzica,

                                    rimétti¹ li piccioni che piovìzzica:

                                    se fa un acquarone² te li zòppica (T3).

¹ Qui rimetti ha il senso, raro in italiano, di mettere al riparo.

² Acquazzone.

 

159. Fiore de pèrzico,

                                    n’ te¹ si saputo l’amante capane²,

                                    te si capato ’n pèrzico giallone³ (T12).

¹ Trascrizione originale: e non te.

² Scegliere.

³ Varietà di pesca, qui nel senso di persona malaticcia, dalla cera giallastra. Sia per ragioni di senso che di rima, il primo verso originariamente forse suonava: fior de limone.

 

160. Fiore de pigna,

                                    puro l’amore mio sta giù pe a vigna.

                                    Io de bacioni gne ne do na grégna!¹ (I1).

¹ Come allo stornello 53, gregna qui significa un mucchio.

 

161. Fiore de riso,

boccuccia risarèlla, damm' un bacio,

boccuccia risarèlla de paradiso (T17).

 

162. Fiore de riso,

                                    séte lo mejo fiore de lo vaso,

                                    lo mejo angelo séte del paradiso¹ (T2).

¹ Verso ipermetro.

 

163. Fiore de róghi,

                                    quanno tu magni pari tanti bruchi,

                                    ’n giornu e l’atru puro o sangue me te sughi¹ (T15).

¹ Verso ipermetro. I róghi sono i rovi.

 

164. Fiore de ruta,

                                    chi ci ha l’invidia bisogna che crepa,

                                    avoja a mormorà, lengua pezzuta!¹ (T12).

¹ Questo verso è riportato anche nello stornello 141.

 

165. Fiore de ruta,

                                    Reggina, de le belle sei la fata,

                                    sto core innammorato te saluta (T2).

 

166. Fiore de ruta¹,

                                    tròvite bella mia chi te ce sòna²:

                                    a me me s’è passata a fantasia (I1).

¹ Variante: fior de farina.

² Modo di dire: chi si cura di te. Il verso seguente significa: mi è passata la voglia.

                       

167. Fiorin fiorello,

                                    la vita mïa nun¹ è manco a dillo:

                                    l’ho da passಠco mamma e mi’ fratello (I7).

¹ Variante: la vita nostra non.

² Variante: c’è da commatte.

168. Fiorin fiorello,

                                    vigna vangata e vino ar tinello!¹ (T18)

¹ Più che uno stornello, si tratta di un proverbio stornellato, con cui si mostrava la soddisfazione di aver già lavorato la vigna e avere ancora scorte di vino in cantina (T18).

               

 

169. Genzano è bellu,

                                    Genzano è fattu a ferru de cavallu:

                                    ce sta la gioventù cor sangue bello¹ (I1).

¹ È considerato dagli stessi Genzanesi (e anche dagli abitanti dei paesi limitrofi) come lo stornello bandiera di Genzano. Tuttavia, anche in questo caso, è probabile che lo stornello sia nato altrove e sia stato solo adattato al paese dell’Infiorata. In molti altri posti si cantano (e si sono cantati) stornelli di un paese fatto a ferro di cavallo e con la migliore gioventù di questo mondo (a mo’ d’esempio si può citare il seguente, di Scalelle (AP): È li Scaléllə nu paesə biellə,/ è fabbrəcatə a ferrə də cavallə,/ cə sta la gəvəntù də sanguə biellə,/ è bianchə e ruscə comə lu corallə, ma l’elenco potrebbe essere molto lungo: Sonnino LT, Alvito FR, Poggio Moiano RI, Montopoli RI, Aragno AQ, ecc…). Difficile capire dove si sia cantato per la prima volta questo stornello, ma occorre dire che con un po’ di buona volontà è possibile riconoscere nel circuito delle mura di Genzano Vecchio la forma fortunata del ferro di cavallo.

 

170. Genzano è bello,

                                    Genzano è fatto a ferro de cavallo,

                                    ce sta la gioventù che è ’n gioiello,

                                    Genzano lo pòi dì ’r mijor castello (T2)¹.

¹ Variante allargata del precedente, raccolta da Giggi Zanazzo a inizio Novecento. Altre varianti, più recenti: Genzano è fattu a fèru de cavallu,/chi stortu, chi sciangatu, chi nun te ne parlo…  (T10); Genzano è fattu a feru de cavallo,/ce sta la gioventù c’o sangue bellu:/chi è mattu, chi è sciancatu e chi è senza cervellu (T10). Genzano è bellu,/perché è a ferru de cavallu/e manicu d’ombrellu (T10).

 

171. Genzano Vecchio,

                                    n’ ce sta niciuno che vale ’n bajocco,

                                    solo l’amore mio vale ’n papétto¹ (I2).

¹ Papetto, nome popolare di una moneta d’argento da due paoli o venti baiocchi, emessa a partire dal papato di Benedetto XIV (1740–58) fino al 1870.

 

172. Ho fatto ’n piantinaro¹ d’accidenti,

                                    che si me vènno a luce tutti quanti,

                                    uno che te ne pia te sgrigna i denti² (T12).

¹ Semenzaio.

² Qui te sgrigna i denti è da intendere: ti fa digrignare i denti (da morto).

 

173. I macellari portino l'anellu,

i carrettieri u fazzolettu au collu,

e l'amore miu e penne au cappellu (T13).

                       

174. In mezzo a un sasso

                                    trovai scolpito in questo modo istesso:

                                    «Viva l’amore con Maurizio abbasso». (T2).

 

175. In mezzo ar mare c’è na vita d’ua¹:

                                    li marinari chi zecca² e chi cala;

                                    così fanno l’amanti a casa tua³ (T12).

¹ Vite d’uva.

² Sale.

³ Di questo stornello abbiamo una redazione più corrotta, riportata da T2, dove il primo verso è ipermetro e non rima con il terzo: In mezzo ar mare c’è na rama d’uliva:/li marinari chi scegne e chi cala;/cusì fanno l’amanti a casa tua.

 

176. Io benedico er palazzo de Ghiggi,

Sacra Corona co tutti li paggi,

e lo mi' amore se chiama Luiggi (T17).

 

177. Io canto li stornelli ne la piazza¹

                                    e nun me importa si ce viè la Forza²,

                                    basta che me senta la mi’ regazza (T12).

¹ Trascrizione originale: ’n mezzo a la piazza.

² La Forza sono le forze dell’ordine.

 

 

178. Io canto li stornelli pe dispetto,

                                    pe fattelo vedé ch’io non sò matto,

                                    e questo còre che ci ho qui ner petto

                                    non è pe te che mamma me l’ha fatto (T12).

 

179. Io canto tanto,
io canto perché ci ho er cor contento,
core contento e lo mio amor accanto (T16).

 

180. Io de stornelli ne saccio ’n bigonzu:

                                    me l’ha portati mamma da porto d’Anzio¹

                                    pe rigalalli a ti, muccu de bronzo² (T1).

¹ Verso ipermetro.

² Stornello riportato con minime varianti già da T12, pag. 86.

 

181. Io de stornelli ne saccio na grégna,

                                    me l’ha portati mamma da la vigna

                                    pe rigalalli a ti, muccu de frégna!¹ (T1).

¹ Variante ironica dello stornello 53.

 

182. Io me ne vajo giù pe Maccarese¹.

                                    Quante n’ho viste de donne pompose,

                                    ma nun pònno ’rrivà le Genzanese (I7).

¹ Maccarese, località di campagna nei dintorni di Genzano.

                            

183. Io me ne vojo ì in California,

                                    dove se magna e beve e n’ se lavora,

                                    dove n’ se conosce l’amor de donna,

                                    dove la malevita è rispettata (I7).

 

184. L’acqua curre curre e poi se strina¹:

                                    ha fatto la ruffiana Nazzarena

                                    co quella batteccona² de Sabbina (T2).

¹ Sembra da intendere: si ghiaccia. Nel genzanese è ancora vivo strina nel senso di vento

di tramontana, mentre strinasse ha il significato di irritarsi per il freddo.

² Bacchettona.

 

185. La mamma der mio amore non vorrìa,

                                    pe dispettacciu gne vorrìa èsse nòra;

                                    la vojo fà crepà de gelosìa (I1)¹.

¹ Già registrato, con varianti, da T1: A madre der mi’ amore nun vorria:/io pe dispetto gne voj’ esse nòra,/a vojo fà crepà de gelosia.

 

186. La penna del pavone potesse avere¹,

                                    me te potessi a màmmita rubbàne,

                                    portàmmete vorebbe assieme a mene² (T2).

¹ Verso ipermetro.

² T2 trascrive co mene, correggiamo per ragioni metriche.

 

187. La rama de lu livu è fatta a scala:

                                    pe voi, bellinu, ’gni chitarra sòna,

                                    a me me sòna a morto ’gni campana (T1)¹.

¹ Già trascritta, con minime varianti, da T2: rama d’uliva; guitarra, ecc…

 

188. La sera de li lumi¹, brutto boja,

                                    me lu facessi vedere ’n cannela

                                    sotto braccetto colla dia nuova² (T12).

¹ Si tratta di qualche processione notturna, forse quella del Cristo Morto.

² Dia nuova è da interpretare qui come nuova fiamma, nuova ragazza. Per dia o diva, cfr. la nota allo stornello n. 53.

 

189. Le male lengue e le gente buciarde

                                    fanno lu focu co le legna verde:

                                    nun dànno foco ar mare perché nun arde¹ (I7).

¹ Stornello di potenti immagini evocative. L’ultimo verso è ipermetro.

 

190. Le stelle de lo cièlo¹ non sò tutte,

                                    ci amanca quella de la mezzanotte,

                                    ci amanca lo mi’ amore e po’ sò tutte (T12).

¹ Nella trascrizione originale cilo, probabile errore di stampa.

 

191. Limone agru e limone spremutu:

                                    nun piagno amore perché m’hai lassato;

                                    rimpiagno o bene che te sò vorzuto (T1).

 

192. Mela de rosa,

                                    quanno te vedo a te sò appassionato,

                                    credi, mia bella, che nun ci ariposo (T12).

 

193. Mela de rosa,

                                    quanno te vedo così doloroso,

                                    credimi, bello, che nun ci ariposo¹ (T12).

¹ Variante del precedente stornello.

 

194. Mele ranette,

                                    sopra lo petto tuo sò tutte fatte,

                                    pe cojele ce vònno le scalette (T12).

 

195. Me lo credevo

                                    che si trovavo mejo n’ te lasciavo.                         

                                    Ma io ho trovato, e te lascio davero (I1).

 

196. Me sò sognato che me stavi accanto,

                                    t’ho chiesto ’n bacio e m’hai fatto contento.

                                    Ritorna, amore mio – oh Dio! che pianto! (I1).

 

197. M’è stata rigalata na bella mela,

                                    e me l’ha rigalata na fruttarola,

                                    sta fruttarola ’n petto la teneva¹ (T12).

¹ Primo e secondo verso ipermetri.

 

198. M’è stato regalato ’n bell’anello,

                                    co du’¹ pietrine e San Giorgio a cavallo,

                                    e me l’ha regalato lu mio bello (T12).

¹ Correggiamo con co du’ il testo originale: ce’ du’, probabile errore di stampa.

 

199. M’è stato rigalato ’n ber diamante,

                                    lo purto¹ ar dito e mamma nun sa gnente,

                                    e me l’ha rigalato lo mi’ amante (T12).

¹ Purto, se in questo caso non è errore di stampa, è forma non più usata nel genzanese attuale. In altri dialetti ancora si pronuncia purtà.

                       

200. M’ha’ data la malìa, me l’hai data,

                                    te credi amore méo che l’ho bevuta?

                                    Sò uprito la finestra e l’ho buttata¹ (T2).

¹ Uprito e méo non sono del genzanese attuale. Malìa è da intendersi nel senso di pozione magica che fa innamorare chi la beve.

 

201. M’hai arubbato er core de quindici anni¹,

                                    o morettina, quanno me lo renni²?

                                    Pàssino settimane, mesi, anni! (T2).

¹ Verso ipermetro.

² Trascrizione originale: rendi.

 

202. M’hai dato la licenza a carta bianca;

                                    o regazzina, t’ho scuperta finta:

                                    te ce tenevo ’n concetto de santa (T2).

 

203. […]¹

                                    M’hai fatto conzumà come na canna:

                                    come sò tristi le pene d’amore (I1).

¹ Stando a uno stornello trascritto nella zona dell’Amiata, mancherebbero due versi:

Bella come la neve di montagna,/ bella come desidera il mio cuore,/mi hai fatto diventar come una canna/come son tristi le pene d’amore.

 

204. Ne vèngo da li monti¹, e che volete?

                                    Quattro a baiocco dàmo le cortellate²,

                                    e de sassate quante ne volete (T12).

¹ I monti in questione sono con ogni probabilità il rione di Roma i Monti, famoso per i suoi bulli.

² Verso ipermetro.

 

205. ’N mezzo a lo petto tuo ce sta ’n canale,

                                    ce curre l’acqua e nun ce dà mai sole:

                                    acqua saporitella, nun fa male (T2).

 

206. Noi semo genzanesi e ve lo dimo:

                                    paura non ci avemo de gniciunu¹,

                                    ci avemo bòna léngua² e mejo mano (T1).

¹ Varianti: pavura nun avemo de gnisuno (T2); de niciunu (T10).

² Variante: lengua bòna (T10). Parallelo allo stornello romanesco: Semo trasteverine e nun tremamo./ Paura nun avemo de nisuno,/ c’avemo bona lingua e mejo mano.

 

207. N’ te fidà dell’omo ch’è birbone:

                                    quanno lo vedi che te viè reale,

                                    allora te viè finto e traditore (T12).

 

208. O bella mora,

                             da quanno porti li pennenti a pera,

                             nun te pozzo dì più mezza parola (I1).

209. O cèra verde,

                             e vattel’a fà un sonno pe le Piagge:

                             come ce¹ pare se fanno la legge (T2).

¹ Nel genzanese attuale di regola gne invece di ce. Le Piagge sono la zona alta

tra Genzano e Nemi.

 

210. O mamma mamma,

                             nun me lo dà ’n paìno de vergogna,

                             dammelo ’n morettino de campagna.

                             O mamma mamma,

                             nun me lo dà nemmanco muratore:

                             se casca da la fabrica se mòre (T4).

 

211. O zitelluccia, che hai perso l’onore,

                                    ’ttàcchite ’n sasso ar collo e bùttite a mare¹,

                                    cusì riacquisti la riputazione (T2).

¹ Verso ipermetro.

 

212. Pacenza vita mia si pati pena,

                                    tu sconta quann’ ha’ fatto vita bòna.

                                    Si vita bòna nun ha’ fatta mai,

                                    pacenza vita mia se patirai¹ (I1).

¹ Questi versi, a metà tra lo stornello e lo sfogo lirico, sono diffusi in diversi altri paesi, ed esprimono la tradizionale rassegnazione della gente umile, abituata a secolari vessazioni.

 

213. Palómma d’oro,

                                    vatte a posà ae vigne a San Gennaru¹,

                                    damme ’n salutu au regazzu miu (T6).

¹ San Gennaru (San Gennaro) è una contrada della campagna di Genzano.

 

214. Pe la strada di Roma c’è ’n serpente,

                                    è lavorato a punta di diamante:

                                    rivojo lo mi’ amore e n’ sento gnente (T12).

 

215. Pisellu nanu,

                                    màmmita vò che zécchi natru scalinu

                                    puro si de Genzano si u più bellinu (T10)¹.

¹ Con ogni probabilità questo stornello è originario di Genzano, ma è presente anche

un’altra versione più italo-romanesca: Pisello nano,/màmmita vò che zécchi nantro scalino:/sei il più bellino de Genzano (I1).

 

216. Pòri civitani senza corata,

                                    giù pe u stradó se a sò perduta,

                                    i genzanesi l’hanno ritrovata¹ (T5).

¹ Altra versione: Poveri civitani senza corata,/ché pe la strada se l’hanno perduta/ li genzanesi l’hanno aritrovata (T2). I civitani sono gli abitanti di Lanuvio, detta un tempo Civita Lavinia. Corata sta qui per cuore, coraggio.

 

217. Poveri civitani senza segnu,

                             nun sanno quanno è notte e quanno è giorno,

                             se sò fatti l’orologgiu de legno¹ (T10).

¹ Varianti: pòri; giornu; gne l’hanno fatto l’orloggio.

 

218. Quanno che morirò lo dico a nonna,

                             sur carro io ce li vojo li nastri lilla¹,

                             de dietro lo mi’ amore che suona e balla² (T12).

¹ Verso ipermetro.

² Verso ipermetro.

 

219. Quanno sposamo noi, caruccio mio,

                             famo venì ’r concerto da Milano,

                             e lo vònno pe noi fare ’n giardino (T12).

 

220. Quanno t’amavo a te, ero pollanca¹;

                             e mo bellino mio me ne sò accorta,

                             e vann’a burlà un’altra, a me m’abbasta (T2).

¹ In senso proprio pollanca vuol dire pollastra.

                                   

221. Quanno t’amavo io t’amava il sole,

                             t’amavano li pesci e le sarde al mare¹.

                             Mo ch’io n’ te vòjo più, nessun ti vuole (I7).

¹ Verso ipermetro.

 

222. Quanto sò belli l’ommini moretti,

                             massimamente quelli ’n po’ ricciotti,

                             pareno mazzi de garofaletti (T12).

 

223. Questo è er vicoletto de la Paja¹:

                             se a quarcheduno gne venisse voja,

                             gne faccio curre dietro, ché la sbaja (I7).

¹ Una via della Paglia c’è ancora a Trastevere, accanto alla basilica di Santa Maria

 in Trastevere.

 

224. Rama de ceci,

                                    sai quanti te ne vojo dà de baci,

                                    o bella mia, quanno se semo presi? (T1)¹
¹Cfr. lo stornello raccolto da T17 (pag. 47), sentito a Genzano anche da T12: Fiore de ceci:/sa' quanti te ne vòijo dà de baci/quanno, bellino mio, se semo presi.

                       

225. Rama de pero,

                                    e io¹ pe strada me lo ’mmagginavo

                                    che l’aveva fatto pe me tanto veleno² (T2).

¹ Abbiamo integrato io ragioni metriche.

² Verso ipermetro.

 

226. Rama pungente,

                                    na zitelluccia nun pò amà du’ amanti,

                                    nun li pò fane du’ cori contenti (T2).

 

227. Santa Maria Maggiore sòna sòna,

                                    cosa vorrà da me questa campana,

                                    che a messa ce so stato stammatina? (I1)

 

228. Santa Maria Maggiore sta ’n salita,

                                    de qua e de là ce sta na bella scala,

                                    e ’n mezzo ce state voi, parma fiorita¹ (I7).

¹ Verso ipermetro.

 

229. S’avessi la virtù che ci ha ’r celletto,

                                    lu nidu¹ vorrei fà ’n mezzo ar tu’ petto,

                                    la vita vorrei fane d’angioletto (T12).

¹ Trascrizione originale: lu nido.

 

230. Se l’acqua de lo mare fosse sangue

                                    tutti li cuori li vorrei dipinge,

                                    ma quello del mio amor vorrei fà piange (I7).

 

231. Séte più bianca della neve al monte,

                                    più rossa séte della marvasìa,

                                    i baci miei ve coprono la fronte,

                                    vojo più bene a voi che a mamma mia;

                                    i baci miei ve coprono i capelli,

                                    vojo più bene a voi che a miei fratelli (T15).

 

232. Séte più rossa voi che lo scarlatto;

                                    si nun credete a me, ’nnate a lo specchio:

                                    in paradiso sta ’l vostro ritratto (T2).

 

233. Siete carina, n’ ve se pò negare,

                                    e chi ve vede a voi deve stà bene,

                                    né date finta¹ a chi ve vò vedere (T12).

¹ Trascrizione originale: ne date. Il senso potrebbe essere: né vi mostrate piena di finzioni con chi vi vuole vedere. Ma non si può escludere che il terzo verso sia corrotto.

 

234. Si lo mi’ amore venisse a la vigna,

                                    quanto rilucerebbe la campagna,

                                    la mejo erba d’amore è la grespigna¹ (T12).

¹ L’erba grespigna (crespigno) qui pare allusione ai capelli ricci dell’amato.

 

235. Si me dite de sì, sto core brilla,

                                    se me dite de no, more de voja;

                                    lontano me ne vado trecento miglia¹ (T2).

¹ Verso ipermetro.

 

236. Si mònica te fai, frate me faccio,

                                    a che conventu vai, te vengo appresso,

                                    si tu prendi maritu, io te l’ammazzo,

                                    tu resti¹ vedovella e io vado perso (T15).

¹ Nella trascrizione originale: così tu resti; ma sembra interpolazione successiva (il verso sarebbe ipermetro).

 

237. Si morta tu me vòi, prenni ’n cortello,

                                    comincia lo mi’ core a trucidallo,

                                    de la vituccia mia fanne ’n macello (T12).

                            

238. Si vòi che io te dia ’r bono avanto¹,

                                    nun parlà co nessun, ch’io son contento,

                                    allora me vederai come ’n santo (T12).

¹ Bono avanto, forse con significato: vanto di donna fedele.

 

239. Sò stata a Roma e sò stata a le vigne,

                                    e l’ho scuperte le vostre magagne:

                                    la madre è la ruffiana de le figlie (T2).

 

240. Sò stato carcerato pe na noce,

                                    ma si pe sorte rivedo la luce

                                    vojo fà bene a chi male me fece (I7).

 

241. Sò stato carcerato senza fà gnente,

                                    la caggione fu tutta d’una spia, 

                                    ma si pe sorte rivedo la gente

                                    me la vojo levà na fantasia¹ (I7).

¹ Sembra una rielaborazione del precedente, di cui condivide spirito e parte dei versi.

 Il primo verso è ipermetro.

 

242. Sò statu a lavorà pe le fornaci¹,

                                    m’ho fatto la regazza genzanese;

                                    o morettina mia, quanto me piaci! (T15).

¹ Resta nella toponomastica odierna una zona nei dintorni di Genzano chiamata «le Fornaci».

                       

243. Sora Maria,

                                    ricordite de me quanno sta’ sola,

                                    ché te se passa la melanconia (T12).

 

244. Te ce credevi

                                    che si trovavi er micco te sposavi.

                                    Io micco nun ce sò, ce lo sapevi? (I1).

 

245. Te credi d’èsse bella, bella tanto,

                                    ma dimme ste bellezze ’ndó ce l’hai¹,

                                    e si le porti sotto a vestarella,

                                    perché ’n faccia nun te l’ho viste mai! (T16).

¹ Altra versione (T10): ’ndó e tié, ipercorrettismo genzanese.

                            

246. Te pija ’n accidente a la capoccia!

                                    Quanno che piove t’aripara l’acqua

                                    e quanno tira u ventu te s’asciutta (T1).

 

247. Te pija ’n accidente su pe ’r culo,

                                    e possa ì a risponn’ ar terzo piano¹,

                                    cusì n’ dichi più male de niciunu (T2).

¹ L’espressione sembra metaforica, quasi dicesse di andare all’altro mondo.

È possibile che possa sia trascrizione errata per pozza (o pozzi).

 

248. Te pozzino ’mmazzà quanno t’arizzi¹!

                                    La lengua te se faccia a mille pezzi,

                                    da dì male de me quanno la spicci²? (T12).

¹ Ti alzi.

² Quando la smetti.                          

           

249. Te pozzino ammazzatt’ a te e tu’ madre

                                    pe quanti giovinotti ha’ messo ’n croce¹:

                                    de mettimice a me nun si capace (T12).

¹ Hai fatto soffrire.

 

250. Timo fiorito,

                                    me fidai de le donne e fui ’ngannato,

                                    me fidai de l’amici e fui tradito (T12).

 

251. Tira, vento,

                                    va’ da lo bello mio, digne ch’io canto:

                                    core addolorato n’è mai contento (I7).

 

252.  Tutta la notte me ’nzogno¹ Maria,

                                    vestita me ce viè da giardiniera,

                                    quanto ce vo’ giocà che si la mia?² (T12)

¹ Nella trascrizione originale: m’enzogno.

² L’ultimo verso sembra da interpretare: scommetti che sei mia?

 

253.  Uh, Dio che callo!

                                    Facétimelo mette ’n tantinello

                                    dentro la vostra stalla il mi’ cavallo (T2)¹.   

¹ È evidente la metafora sessuale.

 

254. Ve do la bòna notte se volete,

e ve¹ la lasso pe ste puntonate,

e domatina l'arriccójerete (T17).

¹Trascrizione originale: se uno, che non dà senso.

 

255. Ve do la bòna sera e più non canto,

                                    bella, n’ ve lo pïate per affronto,

                                    la bòna sera a voi e chi ve sta ’ccanto¹ (T12).

¹ Stornello, come il precedente, di commiato, cantato al termine della serenata.

 

256.  Voi siete quella stella rilucente,

                                    venite da le barze¹ de levante,

                                    di dolore fate morì la gente (T12).

¹ Barze, balze, qui da intendere genericamente come luoghi, e forse termine sostituito

a un originale banne o bande.

 

257.  Vojo partì e non pòzzo partire,

                                    da na catena me sento tirare,

                                    e la caggió¹ si tu der mio dolore (T12).

¹ Caggió: cagione, causa.

 

258. Vojo pià marito e lo vojo matto;

                                    si n’ tè li sentimenti gne li metto

                                    o veramente gne li levo affatto (T2).

 

259. Vojo pïane ’n sordo de ’nzalata,

                                    la vojo sbatte ’n faccia a sta gialluta,

                                    brutta gialluta tisica svenata! (T12)

 

260. Vorrei pe te dottore diventare¹

                                    e lo tuo male lo vorrei guarire

                                    pe non vedette più, bello, penare (T12).

¹ Nella trascrizione originale manca il primo verso, che ricostruiamo a senso. Da altre parti è registrato: se medico potessi diventare.

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