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Criteri della ricerca

Questa raccolta di vocaboli e testi nel dialetto di Genzano di Roma è il frutto di una ricerca iniziata quasi per gioco un giorno di pioggia di circa venti anni fa, nella cucina di casa nostra. Fu lì per la prima volta che notammo una delle regole «grammaticali» più significative del nostro dialetto, una regola che (ma allora ancora non lo sapevamo) lo accomuna a molti altri dialetti dell’Italia centrale e meridionale: l’uso di tre forme diverse di articoli per tre diversi generi di sostantivi. Insieme all’«u» dei maschili (u sgommarèllu) e all’«a» dei femminili (a burza) ci accorgemmo che esisteva anche un articolo «o» per i cosiddetti sostantivi «neoneutri», cioè per sostantivi non numerabili come sale, miele, vino, ecc. (o sale, o mèle, o vino), e questa scoperta ci fece capire come anche il dialetto, considerato in termini scolastici fino ad allora solo come fonte di contaminazione dell’italiano, presentasse una struttura regolare e armonica, degna di essere descritta e conosciuta. Da quel giorno molto tempo è passato, il nostro vocabolario si è arricchito di molte parole, è servito come base di discussione di un esame di Dialettologia all’Università di Roma, ma l’entusiasmo di quella prima scoperta ha continuato ad accompagnare tutta la nostra ricerca, trovando alimento in ogni nuova parola o espressione, in ogni nuovo tassello che andava a colmare un piccolo vuoto nel mosaico linguistico del nostro dialetto.
E, in effetti, il vocabolario vuole essere nelle intenzioni non un mero ricettacolo di parole antiquate, una specie di linguistico monumento ai caduti, ma l’immagine in divenire dell’anima genzanese, così come essa si è espressa e si esprime attraverso il dialetto. Andando avanti nella nostra raccolta abbiamo sempre cercato di non perdere d’occhio questo obiettivo, annotando sempre, là dove era possibile, non soltanto l’espressione dialettale, ma anche il contesto che l’aveva generata. In questo modo, miravamo a collocare la parola nel proprio ambiente vitale, a mostrarla in azione, nel suo uso concreto e «appropriato». Sempre per questa idea del dialetto come organismo in continua metamorfosi abbiamo cercato di registrare accanto alle voci ormai in disuso anche quelle moderne e gergali, distinguendo tre livelli di dialetto (anziani/adulti/giovani). Questa distinzione è puramente intuitiva e intende segnalare, più che l’uso da parte di una particolare fascia d’età, il grado di diffusione della parola in questione.
Va da sé che il nostro lavoro, pur registrando più di 4.000 espressioni e parole, è lungi dall’essere completo e perfetto. Di qui la necessità che tutti i lettori collaborino con noi, indicandoci parole ed espressioni da noi dimenticate, altri significati o eventuali errori, tenendo nello stesso tempo presente che, volutamente, abbiamo limitato la nostra scelta a quelle parole o espressioni che ci sembravano significative e caratteristiche. In genere, abbiamo tralasciato di riportare nel dizionario termini come artu, bravu, cantà, ecc... che pur essendo parole molto usate si differenziano dalle corrispettive italiane in base a leggi di variazione linguistica fisse: rotacismo della «l», desinenza in «–u» dei maschili, apocope dei verbi all’infinito, ecc… Tuttavia, abbiamo dedicato una voce del dizionario anche a parole di questo tipo, se vi era da segnalare un’espressione caratteristica, un modo di dire, un aneddoto, ecc… C’è da notare poi che viene riportata di solito solo l’accezione del termine che costituisce una variazione rispetto al significato abituale attribuito all’equivalente parola italiana: per es. caccià viene riportato solo nei significati dialettali («travasare», «cavare, detto del sangue», «germogliare») e non in quello di «andare a caccia», proprio anche dell’it. cacciare. Così pure abbiamo riportato termini a tutti gli effetti dell’it. letterario o antico che ancora si sono conservati nel genzanese o parole colloquiali e dialettali ormai registrate anche nei dizionari italiani, proprio per evidenziare l’estensione del bagaglio lessicale genzanese.
Accanto a ogni frase citata abbiamo quasi sempre cercato di riportare la fonte, separando gli informatori che abbiamo intervistato di persona (I) dal materiale raccolto da altri (T), comunque sempre verificato. Fa eccezione la fonte T10, in cui abbiamo riportato anche materiale di vari informatori sporadici, che abbiamo trascritto personalmente.


                                                         Nota sulla trascrizione
La trascrizione di un qualsiasi dialetto privo di una tradizione letteraria tale da poter rappresentare un modello anche da un punto di vista ortografico costituisce la difficoltà principale per chi scrive in quel dialetto o per chi ne raccoglie i termini, nonché per chi legge queste trascrizioni, in quanto i dialetti sono stati e continuano ad essere perlopiù strumenti di comunicazione orale. Questa situazione vale anche per il genzanese, che ha cominciato ad essere trascritto solo piuttosto di recente (non esistono, a quanto è noto, trascrizioni in genzanese precedenti al 1907, anno in cui uscirono le raccolte di stornelli di Zanazzo e Bonfigli) e quei pochi che hanno scritto in genzanese o trascritto parole genzanesi hanno ognuno, si può dire, usato un proprio sistema di trascrizione, spesso senza neppure averne una chiara coscienza, e perciò non seguendo regole costanti. Ma se non esiste un modo giusto di scrivere in genzanese, si rende necessario per chi, come noi, si proponga di raccogliere materiale in dialetto da diverse fonti elaborare un sistema convenzionale di trascrizione che, uniformando le varie ed eterogenee informazioni, possa però adattarsi al nostro dialetto e permetta di riprodurne quanto più le sfumature.
Per quanto riguarda gli aspetti fonetici, il sistema dei suoni genzanese è pressoché simile a quello del romanesco, sebbene ci siano significative differenze (come la conservazione, in alcuni casi (1), del nesso consonantico rr: ferru, carru, ecc.). Questo è il motivo principale per cui abbiamo optato per una trascrizione basata appunto sull’italiano-romanesco, ritenendo che una trascrizione scientifica sarebbe stata troppo ostica per il lettore comune. Quindi, bisogna tenere presente che il suono della «c» intervocalica (in parole come aceto o in composti sintagmatici come a ciavatta) è quello “spirante-fricativo” della «c» romanesca (che G. Belli nei suoi sonetti ha reso con il grafema «sc»: ascéto, a sciavàtta), mentre il suono della «z» e della «s» è quasi sempre sordo. Davanti a «n» e «r» la «s» assume sempre il suono della «z»: p.e. n’ saccio è da pronunciarsi nzàccio, ‘r santo come rzanto; prima di «p» e «b» la «n» viene pronunciata «m»: ‘n po’ più si pronuncia mpoppiù, ‘n bicchiere come mbicchiére. Essendo regole di pronuncia fisse, abbiamo adattato la scrittura alla pronuncia solo quando queste consonanti si incontrano all’interno di una parola, trascrivendo ad esempio: pèrzica (pesca), fórze (forse), penzà (pensare), ecc…
Da notare anche l’alternanza nella trascrizione delle forme ghiavelu/diavelu, ghieci/dieci, chié/tié, carrecchiere/carrettiere, ecc… che è dovuta al fatto che in genzanese, soprattutto in quello parlato dalle vecchie generazioni, il suono della «d» e della «t» davanti alla «i» tende a palatizzarsi e ad assomigliare rispettivamente a «g» e «c» dure; tuttavia, in realtà si tratta di un suono intermedio, che non esiste in italiano, quindi entrambe le grafie sono approssimative.
Non abbiamo segnalato il raddoppiamento fonosintattico, perché anche in italiano questo caratteristico aspetto non viene indicato graficamente, tranne in parole composte come chissà, soprattutto, ecc… Quindi, non vengono differenziati graficamente nella nostra trascrizione composti sintagmatici quali, ad esempio, a cena («la cena», pronuncia: ascéna) e a cena («a cena», pronuncia accéna), ma crediamo che il contesto sia sufficiente a distinguerli. Tuttavia, abbiamo indicato il raddoppiamento della consonante iniziale in parole che a Genzano vengono pronunciate con un attacco molto forte, tipo rrabbia, mmatina, ssu, ecc…
Per ridurre al minimo i segni abbiamo deciso di non mettere l’apostrofo davanti agli articoli «u», «o», «a», sebbene derivino chiaramente da «lu», «lo», «la» (che potrebbero essere considerati gli equivalenti letterari, in quanto vengono usati soprattutto nei canti), né dopo gli infiniti troncati dei verbi o dopo altri troncamenti (magnà, mangiare, io sò, io sono, Stradó, ecc…).
Le grafie da noi scelte sono quasi sempre analitiche e cercano di mettere in evidenza gli elementi che compongono l’espressione più che mimare il suono (cfr. poco sopra l’esempio ‘n po’ più). Forme come gn’a, d’a, s’i, ecc… sono le contrazioni delle equivalenti gne a, de a, se i, ecc… e si differenziano dalle parole gna, da, si, ecc… per la pronuncia un po’ più lunga delle vocali: gna che gn’a faccio (bisogna che ce la faccia), d’a monica/da Monica (della monaca/da Monica; da notare che da’a monica è «dalla monaca», e la vocale in «da’a» viene pronunciata ancora più lunga rispetto a «d’a»), s’i magnevino/si magnevino (se li mangiavano/se mangiavano). In particolare, la particella pleonastica «ci» davanti al verbo «avere» è sempre da leggere unita al verbo: ci ho, ci avete è da leggere come ciò, ciavéte.
Inoltre, usiamo l’accento circonflesso ^ sopra una vocale per segnalare la fusione in quella vocale del pronome precedente, tipica della pronuncia genzanese: êra portati issu = i era portati issu (li aveva portati lui); ‘n gn’ônno ditto che no! = nun gn’o onno ditto che no! (altro che se gliel’hanno detto!); s’hâ magnatu essa = s’u ha magnato essa (se l’è mangiato lei), ecc… La lettera «š» è da leggersi come «sc» nella parola «scendo»: talvolta, soprattutto nella pronuncia delle generazioni più anziane, come in altri dialetti meridionali, la «s» diventa «š» davanti a «t» e «c»: fišchianno, leštu, ecc…
La dieresi serve a indicare la separazione di un dittongo per ragioni metriche (mïo si legge mi-o). In ultimo, abbiamo scelto di scrivere natru/natra invece di ‘n atru/n’atra perché in genzanese esistono le forme plurali natri/natre (così come nantro in romanesco diventa al plurale nantri), che inglobano l’articolo indeterminativo nel pronome o aggettivo «atru»: damme natre du’ ciammelle; màgnetene natri po’, de spaghetti!


                                                                   Ringraziamenti
A questa ricerca hanno contribuito e contribuiscono molti informatori, fornendoci materiale scritto o rispondendo alle nostre interviste: è impossibile elencarli tutti, ma a tutte queste persone, senza distinzione, va la nostra più sentita riconoscenza. Si ringraziano in particolar modo Orlando Bonifazi, l’Associazione Folklandia, Luciano Gavini, Corrado Lampe, Luca Lorenzetti, Angelo Tetti e la Pro Loco di Genzano di Roma (nelle persone di Adalisa Belardi, Roberta Canterani, Marco Conti, Giada Galieti, Anna Giammatteo, Mauro Musso, Severino Tofani, Massimo Sciattella) per aver generosamente messo a nostra disposizione il materiale da loro raccolto, permettendoci di offrire una panoramica più ampia e dettagliata del lessico e della cultura genzanese. Inoltre, vogliamo sottolineare l’attiva e stimolante collaborazione di Piero Nitolli e del compianto Renato Torti, i quali non solo hanno contribuito fornendoci moltissimo materiale inedito di prima mano, ma hanno anche rivisto e corretto il dizionario.
Vogliamo dedicare questo nostro lavoro alla cara memoria di nostra nonna, Iolanda Becherelli, perché è solo per merito della sua memoria e pazienza che molte parole ed espressioni genzanesi oggi sono documentate nel vocabolario.

 

1) Questo vale soprattutto per le vecchie generazioni. L’influenza del moderno romanesco fa sì che i giovani spesso pronuncino anche feru, caru, ecc…

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